Mercoledì, 29 giugno 2011
Torno volentieri sulla traduzione e i suoi problemi, attività che
ritengo eminentemente artistica e in continua evoluzione. Stimolanti i
commenti di Alfredo Riponi e Marco Ercolani al post precedente. Entrambi
mi sembrano richiamare la necessità di salvaguardare, rispetto alla
forma, la primazia del "contenuto", intendendo questo in senso lato, di
significato, intenzione, sostanza eidetica, progetto. Certo, le cose
evolvono, e il linguaggio tra queste. Ed ecco che esce una antologia di
poesie di Emily Dickinson nella nuova versione di Silvia Bre
("Centoquattro poesie", Einaudi), su cui ha scritto Nadia Fusini su La
Repubblica (alcuni estratti qui di seguito), ponendo appunto l'accento
sulla doppia azione della traduttrice (nonchè poetessa) di svecchiamento
e alleggerimento del linguaggio. Alleggerimento che non è forse tanto
quello di cui discorreva Calvino nelle sue lezioni, quanto la
consapevolezza delle peculiarità della lingua d'arrivo in relazione al
significato, anche intertestuale, dell'opera in traduzione. Poi
naturalmente ciascuno ci mette del suo, del proprio stile, del proprio
sentire, come - tanto per fare un esempio - la traduzione di Sannelli
(v. QUI o QUI o anche QUI)
che tanto corrisponde a quel che di ieratico insito nella poesia della
Dickinson. Per qualche altro esempio di traduzione rimando a questo post
dell'amica Cristiana Vettori su PisaNotizie (v. QUI). I testi originali di riferimento possono invece essere reperiti QUI, sul sito di Giuseppe Ierolli interamente dedicato alla poetessa americana.
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Mercoledì, 22 giugno 2011
Questo libretto di Giuliano Ladolfi (edito dal medesimo) capita proprio
nel momento in cui insieme ad un amico ci accingiamo a tradurre in
maniera un po' più sistematica un autore francese non dei più facili.
Vedremo quel che ne uscirà. Nel frattempo è interessante dare
un'occhiata ai lavori degli altri, come in questa occasione.
Tradurre è un'arte e insieme un'aporia, ovvero un problema insolubile.
Si tratta forse di mettere in un rapporto di comunicazione il problema
con la sua approssimativa (o mediata) soluzione, e l'autore con il
lettore "altro", come suggerivano Steiner e altri, "consegnandogli" il
significato. Si tratta di operare anche una scelta tra non poche
soluzioni, partendo, nel caso della poesia, dal presupposto della
peculiarità dell'oggetto artistico. Ladolfi, fin dal titolo e perciò in
maniera programmatica, delibera di "tradire" il suo autore, certo a fin
di bene. Dice nella introduzione: "Tradurre la poesia è impossibile,
perchè il verso contiene sempre un valore aggiunto rispetto al puro
significato della prosa (...) la componente musicale delle parole". Nel
caso di Paul Verlaine, come Ladolfi avverte più avanti, in questa stessa
affermazione sta la ragione di una scelta traduttiva. In fondo imposta
dalla stessa poetica di Verlaine, secondo l'affermazione dell'autore che
Ladolfi cita: "Musica sempre; anzi è tuo dovere scegliere le parole non
senza qualche svista". Quindi per Ladolfi non si tratta solo di
"privilegiare l'aspetto che lo studioso considera fondamentale,
prevalente sugli altri", ma, per la peculiarità di Verlaine, farne anche
la disciplina a cui attenersi fermamente, mettendo in secondo piano la
mera corrispondenza lessicale delle parole. Il tradimento di Ladolfi perciò
è stato quello di "tradere", consegnare al lettore la musica di
Verlaine, forse anche oltre Verlaine, per mezzo (cito) di "una
riscrittura completa", che mi ricorda in qualche modo, nel recupero
puntuale di ritmi e suoni, Renato Poggioli alle prese con certi testi
di Stevens. Ne è uscito un risultato interessante, a tratti coraggioso,
talvolta spiazzante, che immagino possa a volte suscitare qualche perplessità o disaccordi in chi ha un'idea
diversa della traduzione poetica, o in chi come me pratica una lettura
"strabica" e quasi parallela tra originale e traduzione. Ma in ogni
caso traspare evidente il rispetto e l'empatia di Ladolfi nei confronti di un
poeta che ama. Cosa che in fondo è il primo strumento di lavoro del
traduttore.
Giuliano Ladolfi - Tradire Verlaine, antologia di testi poetici - Ladolfi Editore 2011
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Mercoledì, 15 giugno 2011
Quattro poesie di Luciano Mazziotta, un giovane poeta che ho avuto modo di sentire leggere (v. qui). Sono tratte da una raccolta inedita, "Previsioni e lapsus", in parte già apparsa qui e qui.
Tra autobiografismo (ma senza "io") e ricognizione
dell'evento e delle sue possibili conseguenze, una versificazione libera
e narrativa in cui emergono rime sparse e assonanze, come del tutto
accidentali e quindi a-funzionali, e una appariscente nonchalance verso
la prosodia. Come se Luciano fosse passato indenne dalle sue letture,
non c'è traccia mi sembra di "padri" letterari, se non, stranamente,
qualcosa tra Gozzano e Raboni. Uno stile, quindi, del tutto personale,
gestito forse (per usare parole di Luciano) con parole "dette...in modo
compulsivo", stile su cui credo ci sarà da lavorare ancora un pò.
Senz'altro più incisivi i testi del suo primo libro "Le città
biografiche" (v. qui), rispetto ai quali non so se
questi sono precedenti o successivi. Ma a parte queste considerazioni di
"gusto" che hanno orientato la scelta dei quattro testi qui riprodotti,
Mazziotta riesce a far filtrare una sua inquietudine di osservatore
ancora fresco ma non ingenuo delle cose, dei lapsus, di ciò che lui
chiama "interferenze" o ancora meglio "microstoria". Evidenze, reperti,
relitti di questo presente in cui ci ritroviamo, e che molti hanno già
attraversato. Sul futuro previsioni non pervenute.
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Mercoledì, 8 giugno 2011
Che nella poesia di Monia Gaita il ritmo musicale, la
fonìa di insieme sia nello stesso tempo strumento e obbiettivo, elemento
fàtico e misura per il fruitore, appare subito evidente, non solo fin
dalla prima lettura in cui subito l'occhio si impiglia in accenti, ma
anche dalla cura quasi maniacale (acribìa) delle note al testo, (un
esempio: mòngolo: s.m. e agg., individuo appartenente ai
Mongoli, popolazione dell'Asia centrale che ecc.). Per la verità
sospetto che la cosa faccia parte del gioco, se non proprio come
elemento straniante che riporta - in senso lato - alla sperimentazione,
almeno nel senso che come ogni "musicista" Gaita aspira a dare
indicazioni nette e autoriali al proprio "esecutore" (lettore), in modo
che non si prenda troppe libertà (ecco perchè accennavo prima al
fàtico). Perciò mi torna ciò che Gaita afferma in fondo al libro in una
piccola intervista con Mario Fresa, suo prefatore: "Per me la poesia
largheggia e si incrementa anche nell'impasto sinfonico di una partitura
musicale invisibile ma presente. Ciò avviene, e con l'apposizione degli
accenti acuti e gravi, e con un’accurata scelta lemmatica che eleva
ogni parola a unità infungibile e necessaria. Il ritmo interiore
echeggia nell’eiezione fonico-espressiva delle strofe e ad essa
coerentemente si combina sotto l'egida del gioco elementare
significante-significato-suono. La parola ha delle note ben precise,
bisogna solo cercarle, dando loro flauti, voce e combustibile vitale."
Ecco quindi l'accentazione "ostinata" (tanto per rimanere nel campo
semantico musicale), artificio (sia detto in senso classico) che tra le
mie conoscenze mi rimanda a Silvia Comoglio (v. QUI),
che però lo usa in maniera un pò meno affollata e contestualmente ad
altri "segni". Ed ecco anche quella saturazione semantica a cui accennava la
stessa Gaita più sopra. Infatti (e si torna alla puntualità
delle note) le parole si fanno astratte e "distanti" l'una dall'altra,
spesso varcando "i limiti della pura ineffabilità", dice Fresa nella
prefazione, e sono d'accordo, con una selezione lessicale spesso ricercata, astratta e "rara". Che poi tutto ciò perda un pò in potenza
connotativa, mi pare inevitabile. Acquistandone magari un' altra, di
altro tipo.
E fin qui ci siamo. Bisogna aggiungere che il ritmo in musica non è
tutto, e Gaita lo sa benissimo. Ecco perchè gli accenti poi a loro volta
diventano chiodi che fissano le parole a un supporto (sia detto - qui -
in senso plastico, pittorico), ne fanno installazione, le portano alla
rilevanza iconica che mi ricorda, tra l'altro e tra gli altri, qualcosa
di Joseph Kosuth (e scusate l'azzardo)
Credo che Gaita abbia ben presente questo concetto, almeno a giudicare
dalla sua dichiarazione di poetica, in cui mi pare si faccia accenno
non tanto alle "cose", ai temi, alla narrazione ("la mia poesia non è
facilmente comunicativa perchè per me la poesia non ha da comunicare...
resta pur sempre Arte Assoluta"), quanto alle modalità manipolatorie,
consce e inconsce ("...parto sempre da ricordi, esperienze in
svolgimento, passate o immaginate possibili...Ma poiché ritengo che nel
pensabile risieda e pulsi verità e sostanza, non distinguo tra
oggettività e soggettività, ne mescolo le carte a piacimento, ne mangio a
fette fate, brume e mondi")
Perciò ecco perchè in definitiva il lavoro di Monia Gaita mi sembra che
debba essere considerato un interessante esempio di poesia
"concettuale" pura, parecchio vicina alla nota definizione di Sol
LeWitt ("Nell'arte concettuale l'idea o concetto è l'aspetto più
importante dell'opera... L'idea diventa una macchina che crea l'arte."),
poesia attraverso cui però Gaita, riservandosi un ampio margine di fede
nella possibilità di "sgretolare il caos", dipinge a larghe campiture barocche una sua vicenda e insieme un'idea
personale della crisi moderna, che viaggia velocemente verso una Babele
comunicativa di cui il linguaggio è il primo protagonista e la prima vittima.
Monia Gaita - Moniaspina - Edizioni L'Arca Felice, 2010
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Giovedì, 2 giugno 2011
Una vecchia poesia di Corrado Costa, non eccelsa (meglio queste), tratta da una rivista storica di cui è difficile trovare anche un solo numero. Il senso della riproposizione di questo testo di Costa, non è tanto la sua significazione peraltro interessante, con le varianti (v. anche qui), le annotazioni, le abrasioni, i vuoti colmabili ad libitum, il gioco a nascondino con le cancellazioni "visibili" e il dialogo tra mano e macchina. E' piuttosto la messa in discussione della riproducibilità, proprio nel momento in cui essa dovrebbe essere maggiore, su un mezzo come internet che mentre allarga la diffusione appiattisce la forma. E' come se il blog, per qualche sua natura, non solo permettesse generalmente niente altro che una scrittura lineare, ma lo facesse costringendola perfino a un medesimo carattere tipografico, qualsiasi ne sia l'autore. Cosa che in casi come questo (ma si pensi anche alla grande importanza metrica che Amelia Rosselli dette alla disposizione tipografica delle prime edizioni di Serie ospedaliera e di Variazioni belliche, imponendola all'editore) equivarrebbe di fatto a riscrivere il testo.
Fonte: Tam Tam n. 14/15/16 - Luglio 1977
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