Mercoledì, 27 aprile 2011
L'amore è uno di quei temi infiniti, ricorsivi,
millenari, che oggi più che mai possono permettere una poesia di
"azione", dilagante, teatrale, espressionista. Come elemento fondante
della psiche umana, esso è "cronico". Prima ancora è stato sacro, ed è
stato una delle prime cose ad avere un nome, finchè di esso, nella
modernità liquida di oggi, non ci è rimasto che quel nome, come la rosa
di Bernardo citata da Eco. L'amore è anche forse la cosa più soggettiva
che esista, e pertanto ogni tentativo di condivisione artistica
dell'esperienza è l'espressione di una rischiosa volontà di
rappresentazione, o un esorcismo. La poesia è tentativo di dare una
definizione, una sostanza all'amore, pur partendo dalla consapevolezza
dell'inanità dello sforzo. Il tentativo è scavo, e lo scavo, in poesia,
non può che effettuarsi all'interno del linguaggio, della sua
potenzialità connotativa, delle sue dinamiche espressive, delle sue
torsioni, come in questo testo di Viviana Scarinci. Nato per essere detto, recitato, ispirato in parte alle visioni spietate del pittore Sergio Padovani
con cui dialoga, il testo di Viviana impone espressivamente quella
soggettività di cui si diceva prima, ma non essendoci posto qui per
nessun "io" (la visione è per definizione un "altro da sè" che invade) e
marcando nel contempo una distanza anche dal corpo, che,
dicevo altrove, è ormai da tempo un topos di parte della poesia
femminile contemporanea, dapprima come riappropriazione, poi nuovo
terreno di disagio e luogo in cui si incrociano ancora problematiche
irrisolte. Qui la poesia, stesa in lunghe pennellate orizzontali di
sensazioni trafitte dall'intelletto, si fa in un certo senso
"concettuale", le domande, le ipotesi, i dubbi sull'essenza dell'amore
vengono "eseguiti", rappresentati e porti come pensiero e riflessione sulle sue sembianze ingannevoli attraverso un linguaggio che è trasparente e scomponibile e insieme
misterioso e sibillino. In altre parole, anch'esso - qui - "una bestia
cronica che sembra un giocattolo", "una chimera che non assolve i fatti", ma "li assorbe nella spugna capovolta dei sogni".
Continua a leggere "Viviana Scarinci - L'amore e' una bestia cronica"
Mercoledì, 20 aprile 2011
Visto lunedì sera "La passione di Cristo" di Mel Gibson. Non lo avevo mai visto prima, c'era qualcosa che mi impediva di farlo. Una giusta intuizione, con il senno di poi: buona la prima, come si suol dire. Quello che divide un regista americano fascistoide e integralista da un poeta italiano laico e marxista è sopratutto una sensibilità che ha profonde radici umaniste, che si è nutrita di una estetica secolare insieme rispettata e criticata, anche con durezza, come avveniva in quegli anni Sessanta in cui P.P. Pasolini girava "Mamma Roma" e "Il Vangelo secondo Matteo". Quando Pasolini scriveva questi versi (1962, i giorni sono quelli delle riprese di "Mamma Roma") il "Vangelo" era ancora di là da venire, ma in queste righe si può già intravedere ciò che in gergo cinematografico si chiama il "soggetto" (la "visione", dice il poeta) del futuro capolavoro. Il Tonino citato nel testo è il grande Tonino Delli Colli, direttore della fotografia dei principali film di Pasolini, Leonetti è Francesco Leonetti, poeta amico personale di P.P.P. e cofondatore, nel 1955, della rivista "Officina", mentre l'Acqua Santa è una località della campagna romana in cui P. girò nel 1963 "La ricotta", episodio di "RoGoPaG", che fu oggetto all'epoca di un processo per vilipendio della religione. Il testo è tratto da "Poesie mondane", in "Poesia in forma di rosa", Milano 1976.
23 aprile 1962
Una coltre di primule. Pecore controluce (metta, metta, Tonino, il cinquanta, non abbia paura che la luce sfondi - facciamo questo carrello contro natura). L’erba fredda tiepida, gialla tenera, vecchia nuova - sull’Acqua Santa. Pecore e pastore, un pezzo di Masaccio (provi col settantacinque, e carrello fino al primo piano). Primavera medioevale. Un Santo eretico (chiamato Bestemmia, dai compari. Sarà un magnaccia, al solito. Chiedere al dolente Leonetti consulenza su prostituzione Medioevo). Poi visione. La passione popolare (una infinita carrellata con Maria che avanza, chiedendo in umbro del figlio, cantando in umbro l’agonia). La primavera porta una coltre di erba dura tenerella, di primule... e l’atonia dei sensi mista alla libidine. Dopo la visione (gozzoviglie mortuarie, empie - di puttane), una "preghiera" negli ardenti prati. Puttane, magnaccia, ladri, contadini con le mani congiunte sotto la faccia (tutto con il cinquanta controluce). Girerò i più assolati Appennini. Quando gli Anni Sessanta saranno perduti come il Mille, e, il mio, sarà uno scheletro senza più neanche nostalgia del mondo, cosa conterà la mia "vita privata", miseri scheletri senza vita né privata né pubblica, ricattatori, cosa conterà! Conteranno le mie tenerezze, sarò io, dopo la morte, in primavera, a vincere la scommessa, nella furia del mio amore per l’Acqua Santa al sole.
nella foto: P.P.Pasolini e Enrique
Irazoqui ai Sassi di Matera (Copyright Archivio Domenico Notarangelo)
Mercoledì, 13 aprile 2011
Ricevo dall'amico Gilberto Gavioli questo libretto
di una apparente esordiente. In realtà, si legge da qualche parte, "Le
camere attigue" è la prima pubblicazione di un'opera completa,
quindi risultato - si potrebbe supporre - di tutto un lavorio
precedente, magari disperso qua e là. Dico questo perchè un'opera prima è
insieme una promessa e un alibi, promessa di un divenire poetico e
stilistico, alibi per eventuali ingenuità e mancanze.
Ho
letto tutto d'un fiato il libro in questione, per poi arrivare ad
alcune conclusioni del tutto soggettive. La prima (che comprende molte
delle altre) riguarda la sensazione abbastanza persistente di una poesia
con il freno a mano tirato, in cui c'è competenza linguistica ma non
nel senso a cui allude nella postfazione Francesco Scaramozzino
("parola scovata negli antri..., scovata perchè desiderata, scelta
perchè innanzitutto rifiutata" ecc.), in quanto la selezione (di "un
linguaggio essenziale, magro" dice di sé l'autrice) avviene nella
maggior parte dei casi non per creare uno scarto, un salto di
potenziale, l'inatteso, ma piuttosto un rassicurante andante narrativo;
c'è il dato esperienziale del dolore, dell'amore, della separazione,
della maternità, c'è anche il progetto interessante di un percorso tutto
interno alla casa, al palazzo, al condominio (e non è un caso), c'è un
lirismo rattenuto, una malinconia pacata come un lento disgelo a
primavera; c'è questo e altro nel libro, ma con una complessiva
timidezza, di sentimenti o d'altro, una riservatezza direi borghese
che rischia di inibire la comunicazione emozionale verso il lettore.
Intendiamoci,
si tratta di un libro piacevole, complessivamente ben scritto, con
alcuni testi rimarchevoli. Ma qui come in altri casi di cui ho avuto
occasione di parlare il problema non è poi tanto la questione dell'io,
la ricerca linguistica, l'individuazione dello stile o semplicemente la
novità, quanto quello dello "spostamento" e della riconfigurazione della
realtà, della sua riscrittura. In altre parole, la scoperta del non
noto, oltre che per sé autore anche per il lettore. Una mia vecchia
fissazione, lo ammetto. E questo può avvenire solo se si allenta il
freno almeno un pò, se si rischia, se si mette in corto almeno un pezzo della propria esperienza, in modo che il lettore si ritrovi in questa esperienza (magari comune) solo perdendocisi.
Brevemente
quindi sulle ragioni della selezione che ho fatto. Non è detto che, per
altri lettori, siano i "migliori" tra i testi del libro, ma sicuramente
tra essi ci sono testi di rilievo: sono quelli che più si sono
"liberati" da quelle ritrosie che mi pareva di aver individuato sopra,
che più hanno sconfinato in visioni anche surreali, che hanno trovato
più accenti emotivi o anche più punte di amarezza non rassegnata, che
più hanno davvero "scovato", per dirla ancora con Scaramozzino, una
parola "giusta".
Continua a leggere "Rossella Maiore Tamponi - Le camere attigue"
Giovedì, 7 aprile 2011
Ringrazio l'amico Enrico De Lea di avermi ricordato che da qualche parte dovevo avere questo libretto, ormai quasi introvabile. Eccolo qua, di una forza intatta, attuale in maniera inquietante. Come ebbe a dire Corrado Costa al suo editore Vanni Scheiwiller: "Scrivendo queste poesie ritenevo di avere raccolto segni di una realtà che si era manifestata ampiamente, codificata in una lingua artificiale, standardizzata per stereotipi politici, pesanti, ormai privi di emozione, ma che si sarebbe organizzata come memoria in un tempo successivo, dando vita a una realtà testuale. Come se la poesia vivesse prima dell’apparizione del testo. Se é possibile ricordare il passato, non é possibile dimenticare il futuro. Il futuro non si vede e quando il poeta lo comincia a parlare, per questo viene considerato cieco.Scrivevo, dunque, poesie per un testo invisibile, per conficcare una spina nella lingua che lo avrebbe parlato.Il Iinguaggio standard usato appare sempre più come una lingua ignota e l'oggetto "Pseudobaudolaire" (sic) é merce d’uso per usi sconosciuti. Non sapevo che i tempi sopraggiungessero così rapidi, da fare rileggere "Pseudobaudolaire" come specchio degli anni immediatamente successivi alla sua stesura". Ma anche, mi permettto di notare, specchio degli attuali, quasi cinquant'anni dopo la sua prima edizione, nel 1964. Del resto, aggiunge Costa nella lettera all'editore, "se la poesia contemporanea ha qualche punto di partenza, non ha ancora qualche punto d’arrivo. E' qui che mi distinguo dai poeti "arrivati". Non si é stati chiamati a innalzare un edificio, ma a vedere in trasparenza - cito da Wittgenstein - davanti a sé le fondamenta degli edifici possibili". Una dichiarazione di poetica di non poco momento, proiettata in avanti, anche oltre l'identità o il lascito dell'autore, restituita alla responsabilità dei poeti che sarebbero venuti: "Il mio lavoro di poeta è stato questo: sollecitare, anticipare, proporre un'improponibile poesia non mia, convincere che "x" nascerà e che giustificherà il mio testo. (...) Con "Pseudobaudelaire" fabbricavo una pietra di scarto. Dalla produzione di significati volevo esaurire la possibilità di senso. Un contenuto senza recipiente che lasciava a mani vuote la catena del passamano". I DUE PASSANTI
I due passanti: quello distinto con il vestito grigio e quello distinto con il vestito grigio, quello con un certo portamento elegante e l’altro con un certo portamento elegante, uno che rideva con uno che rideva uno per lo più taciturno e l'altro per lo più taciturno, quello con le sue idee sulla situazione e quello con le sue idee sulla situazione: i due passanti: uno improvvisamente con gli attrezzi e l'altro improvvisamente nudo uno che tortura e l'altro senza speranza una imprecisabile bestia una imprecisabile preda: i due passanti: quello alto uguale e quello alto uguale, uno affettuoso signorile l'altr0 affettuoso signorile, quello che si raccomanda e quello che si raccomanda
Continua a leggere "Corrado Costa - da Pseudobaudelaire"
Sabato, 2 aprile 2011
Chiudo la serie di post dedicati ai lavori del Premio Internazionale Il Ceppo di Pistoia con una poesia di Paolo Fabrizio Iacuzzi, direttore artistico
del premio, ispirata all’opera simbolo dell’edizione di quest’anno, un origami dello scultore Luigi Russo Papotto dal titolo “Il Ceppo bianco”. Iacuzzi
è tra l’altro curatore dell’opera di Piero Bigongiari ed è nell’ambito del premio che del grande poeta è stato presentato il testo inedito qui
pubblicato. Ringrazio Iacuzzi per il materiale concesso a Imperfetta Ellisse per questa occasione e per i post precedenti
Il Ceppo Bianco
Cartografia assiale è quanto ho appreso nell’orto dai frutti.
E da questo padre che prima della morte ha invaso la Natura.
Già esiste al di là della sua vita. Percorre in discesa il bosco
Di castagni. Arriva al cerro sughero. Disegna la carta in forma
Di trapezio. La peripezia umana. Qui nel ceppo tagliato
Il castagno si esprime in mazze sottili di carta. Possiede
La forza degli origami che non diresti. Le mazze bianche.
I ritagli di carta. La neve nel primo inverno. Qualche foglia
Verde rimasta intatta nei bronchi neri. Una bianca è il sellino.
Bicicletta l’intreccio della cesta in divenire. Stretta con fili
Di paglia. Manubrio e canna tralci di vite bianca. Calce.
Si muove il vento. Si concede il movimento. Salire dai bronchi
Neri andati a fuoco dopo il taglio. A volte s’impenna alta.
Spaventa gli storni piovuti in assalto. Nella bandita di caccia.
Paolo Fabrizio Iacuzzi
Una poesia inedita di Piero Bigongiari
La foresta dell’Acquerino
Ebbi un paese pieno di foreste
e botri e feste mattutine, vidi
l’irradiarsi del sole tra le fronde
gelide ancora della notte, udii
parlare il muto come un animale
preistorico. Perché dunque se dico
che io so stare dove non si può
sostare, sembra incredulo il mio detto?
Nulla più dell’imperfezione è
perfetto, nulla più del tragico è
dolce.
Acque cadenti giù di masso
in masso che scherzavano coi venti
furono testimoni che il mutare
era piuttosto stare nell’infrangersi
dello specchio. Il diamante dove appare
e scompare della vita, se lo
estrassi dall’anulare del padre
e lo lasciai cadere e scheggiare
la trasparenza oscura, dove amare
era solo un sospetto, dove mai
io posso ritrovarlo?, oltre il tarlo
della mente, nei suoi oscuri cespiti
dove la luce e il niente che s’incontrano
si toccano a vicenda.
È in frammenti
che il canto inascoltato trova i suoi
più nascosti elementi come persi
sul buio pavimento luccicavano
minuscole le schegge che indicavano
che il cammino non regge se le sue
direzioni non moltiplicano il senso
delle regge della felicità
da abbandonare. È dolore, non polvere
sostare dove l’uomo deve stare.
– Ma tu, o dolcissima, non voltarti,
sei sulla curva estrema del tuo sguardo. –
Segno qui per te un frammento del poema,
pur se in grave ritardo sul suo tema.
14 maggio 1989
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