Giovedì, 26 agosto 2010
Non so quasi nulla di Silvana Colonna. So però che que ste poesie mi piacquero, quando le lessi una trentina di anni fa, e che continuo a considerarle eccellenti. Silvana Colonna è nata a Belluno nel 1942 e vive (credo) a Milano. Suoi testi sono apparsi su "Paragone" e su altre riviste. Nel 1984 ha pubblicato, con presentazione di Maurizio Cucchi. "L'orientamento lontano" (Società di Poesia, Milano), in cui figurano anche i testi qui pubblicati. E' traduttrice dall'inglese, in particolare dell'opera poetica di E.A.Poe. Non ho notizie di altre pubblicazioni.
Da parte di Silvana Colonna, nessuna condiscendenza nei confronti del lettore. Difficile ravvisare con esattezza l'identità di questi testi, impossibile tracciare una pur vaga mappa delle loro probabili ascendenze. É una poesia dalla controllata eppure necessaria reticenza, quella che si sviluppa in questa sua prima raccolta organica. Una poesia in sé perfettamente compiuta, elegante nello stile, che nell'apparente freddezza o indifferenza del tono e della pronuncia cela solo parzialmente la tremante, trepida sensibilità della propria autentica natura. Ed è così che, dalla superficie senza esibite increspature del suo verso, Silvana Colonna attrae, coinvolge un po' misteriosamente l'interlocutore; e lo fa certo in modo sottile, nella flebilità irrinunciabile, quasi fisica della sua voce, che sempre la sorregge nella registrazione di emozioni e battiti minimi e nondimeno profondi, di improvvisi tuffi al cuore, di ossessioni continue eppure appena trapelanti. In questo modo si svolge, con puntiglio, con precisione, con insistita cura e attenzione dei dettagli, la delicatissima trama del suo discorso, nel pudore di un tocco che sa produrre elementi di essenziale, limpida grazia. (da una nota non firmata attribuibile a M.Cucchi - Poesia Uno, Guanda 1980)
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Sabato, 21 agosto 2010
Su come se la passi la poesia, data sempre per moribonda se non spacciata del tutto, interviene Valerio Magrelli, in un articolo su La Repubblica del 14 agosto scorso, dal titolo "Un popolo di poeti - Un paese di rime tempestose" (v. qui). Articolo appunto giornalistico, ma comunque interessante sintesi di come la vede un osservatore in un certo senso privilegiato come Magrelli, che ha modo di registrare lo stato dell'arte da diversi punti di vista, compreso quello interno alla editoria maggiore. Si parte naturalmente dalle cifre, a prima vista impressionanti. Un milione e mezzo di persone che avrebbero composto almeno una raccolta in vita loro (non sappiamo se edita o no), 20 o 30 mila "praticanti" (termine che sta, non certo per colpa di Magrelli, tra la fede religiosa e il judo). Cifre notevoli, sì. ma mi chiedo quali in proporzione possono essere in un paese come gli Stati Uniti, dove la poesia si insegna perfino nelle università. Voglio dire, può darsi anche che le nostre non siano così esorbitanti. O può darsi viceversa che lo siano, in relazione al grado di acculturazione di questo nostro paese. Comunque sia, il fatto è - prosegue Magrelli - che i poeti sono tanti e i libri di poesia venduti sono pochi. Ecco qua il punto, tante volte sollevato anche nei dibattiti in rete: si scrive ma non si legge (e tanto meno si legge criticamente, ma questa è un'altra storia). E se vogliamo per un attimo rimanere alle cifre, sarebbe bastato che il milione e mezzo di scrittori di poesie avessero comprato un libro di poesie, oppure, se vogliamo accontentarci, sarebbe sufficiente che i 30 mila "praticanti" acquistassero una raccolta all'anno (diciamo 30 raccolte per mille copie, considerando queste mille una produzione editoriale di "sicurezza") per evitare la lamentata chiusura di certe collane. Questo è un fatto, per usare le parole di Magrelli, di carenza comunicativa, perchè, dico io, è carente il ricevente del messaggio (e come sappiamo, mentre il silenzio è anch'esso una forma di comunicazione, la sordità non lo è). Altri fatti, richiamati da Magrelli, sono lo spostarsi dell'interesse, sopratutto giovane, verso altre forme "liriche" o poetiche come la canzone (citando Lorenzo Renzi) e lo scadimento del mandato sociale del poeta, ripiegato sul confessionale, sul narcisistico dettaglio della propria vita effimera (citando Mazzoni). Magrelli si è sempre opposto fieramente all'idea che la musica leggera, la canzone anche autoriale sia "poesia", opposizione che ho potuto constatare anche personalmente durante un incontro pubblico. Su questo sono certo d'accordo con lui, con buona pace dei fans di De André o Capossela. In quanto all'io imperante a cui allude Mazzoni, non si tratta tanto di quello eroico che ha attraversato il '900 mostrando la crisi dell'individuo di fronte ad un mondo sempre più complesso, ma quello che dopo aver esaurito l'espressione di realtà nuove per quanto individuali ha poi portato questa individualità verso modalità espressive che quanto più erano libere tanto meno erano comunicative. E allora? Allora, per quanto queste premesse non siano affatto rassicuranti, la prognosi non è del tutto infausta. E questo perchè, come annota correttamente Magrelli, la comunicazione poetica si è spostata altrove. E lo ha fatto in due direzioni importanti, quella di una produzione cartacea minore, di riviste e piccoli editori, spesso più coraggiosi e curiosi dei grandi (in gran parte in difficoltà); e quella di una poesia disseminata in luoghi o eventi (Magrelli cita gli slam) o occasioni diverse, anche più capillari dei festival che cita Magrelli, o dei premi letterari su cui qualche volta è lecito avere dubbi. Sul versante della carta, tralasciando per il momento le antologie, a volte costruite come certe mostre, cioè su un filo conduttore artefatto (il più di tutti quello basato sull'astrattissimo concetto di "giovane"), direi che l'attività più meritoria la svolgono i fogli, le piccolissime riviste, le piccole case editrici (i nomi sarebbero molti). La poesia su carta sembra effettivamente affidata all'editoria minore, o addirittura a quella amatoriale, che si accontenta di andarci pari anche senza il famigerato "contributo" dell'autore, quella che seleziona la roba da pubblicare mediante un confronto tipo un concorso che non sia ad usum assessoris o annusando in giro (e dove vuoi annusare, ormai, se non nella rete?). Ed effettivamente quello che conta (e la novità) è appunto il confronto, più o meno democratico, che va a sostituire il patronato o patrocinio di questo o quel Poeta Noto. Breve inciso: non illudiamoci del tutto, anche nel web ci sono forme di patrocinio che si appoggiano alla "autorevolezza" di certi siti o luoghi virtuali. Ma è una questione marginale. Sta di fatto (e ne abbiamo parlato in altre sedi) che solo il web poetico può avere una visione abbastanza varia di quello che sta succedendo. E' un fatto che personalmente riesco a leggere cose più interessanti in certi siti che nella "bianca" di Einaudi, che pure si azzarda a pubblicare perfino esordienti assoluti (v. qui). Già, la rete. Magrelli accortamente non manca di registrare (forse con un pò di ritardo) che la novità vera è appunto rappresentata dal web, anzi direi meglio dalla comunità poetica che bene o male e con differenziati livelli qualitativi (e qui si torna al problema della "lettura" critica) si è insediata in rete. Ai siti che cita Magrelli aggiungerei almeno il nuovo e in progress Poesia 2.0 (v. qui), figlio naturale di un serrato dibattito su poesia e web che si è svolto negli ultimi tempi (Vimercate, Verona, la rete stessa...), dibattito che tutti si augurano che continui e si intensifichi, non ostante qualcuno creda di identificare elementi di stanchezza nel mezzo. Qualche considerazione finale. Partito dalla contraddizione tra i molti poeti e la poca poesia venduta, Magrelli chiude il cerchio tornando al paradosso del rapporto tra poesia e mercato. Eppure, proprio partendo dalla millenaria convinzione che carmina non dant panem (né ai poeti né agli editori), deve proprio esserci un rapporto di questo tipo? Non è forse proprio la piccola editoria, che ha depotenziato la carica commerciale della poesia, e ancor più internet, che l'ha smaterializzata e forse defininitivamente demonetizzata (mi si passi la parolaccia), che hanno spostato drasticamente i termini del problema? E se invece di venderla l'obiettivo fosse quello (con il web, gli eventi, gli slam, le letture, il copyleft) di fare della poesia una cultura diffusa?. E anche: possiamo inquadrare il problema da diverse dicotomie? Voglio dire, possiamo decidere che c'è una differenza sostanziale tra poeti editi e poeti noti? oppure tra poeti venduti e poeti diffusi (scelta che alcuni hanno fatto)? se la mia poesia in rete ha 500 lettori non paganti e quella del Poeta Noto vende 500 copie come va considerata la cosa? Certo questa diffusione, le centinaia di pagine che è possibile reperire in rete pongono a maggior ragione il problema della qualità, e di una attenzione consapevole e critica. Ma restano una serie di domande, una delle quali è se per far vivere la poesia non dobbiamo alla fine "regalarla".
Venerdì, 13 agosto 2010
Statisticamente, almeno stando a quanto apparso su Poecast l'aggregatore poetico di Vincenzo Della Mea, i coccodrilli poetici di Luciano Erba, scomparso il 3 agosto scorso, sono stati tre. Coccodrilli in senso lato perchè nessuno dei tre compiange o santifica, o include o esclude Erba in una qualche corrente o temperie. Che ci si ricordi dei poeti solo quando muoiono è un fatto e non una colpa imputabile a qualcuno. La colpa è semmai di scordarcene quando sono ancora vivi, non riuscendo ad attribuire ai dimenticati nemmeno un valore di tradizione da far saltare allegramente. Si può dire che Luciano Erba non appartenesse nemmeno alla tradizione, almeno a quella italiana, forse per via della sua intensa frequentazione di traduttore e studioso della letteratura francese. Era semplicemente quello che si definisce, con un frusto luogo comune, un poeta, o meglio un intellettuale (nel senso che Eco ritorna a dare al termine), appartato. Secondo Marco Forti, "a differenza di molti coetanei più vocati alla sperimentazione - da Pasolini a Zanzotto, all'ultimo Giudici - Erba al massimo travolge la realtà piccolo borghese e vetero cattolica in cui è condannato a vivere, col fervore quasi settecentesco dell'immaginazione, della fantasia che vola a mezz'aria". Guido Guglielmi e Elio Pagliarani, invece, nel loro da tempo introvabile "Manuale di poesia sperimentale" (Mondadori, 1966), tentano di ascrivere Erba a una "poetica dell'espressione" (cioè una poetica dei valori linguistici piuttosto che degli elementi semantici della lingua) contrapposta o comunque distanziata da quella della comunicazione, cioè dei significanti e dei significati. Eppure anche rispetto a questa poetica Erba è periferico: secondo P.V. Mengaldo, Erba assume "questa posizione di erede disimpegnato di un linguaggio in via di esaurimento che sta all'origine del dono maggiore di questo poeta, un'eleganza naturale e noncalente, ottenuta senza alcun apparente lenocinio formale e per pura evidenza visiva, quasi da decalcomania, delle immagini. Press'a poco come il coetaneo e conterraneo Risi, Erba utilizza in direzione realistico-gnomica il filone seccamente epigrammatrico dell'ermetismo (specie Sinisgalli, del resto influente su tutti i lombardi), seriando le immagini in piccoli racconti essenziali". A mio avviso secondario poi che lo si accosti a Prévert, per quanto "filologo e lombardo" (Anceschi) o a un semplice tardo epigono del montalismo di quegli anni.
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Lunedì, 9 agosto 2010
Poesie da una piccola silloge di Enrico De Lea, da presso e nei dintorni, che forse sarà pubblicata a stampa così, forse sarà rivista, come lui stesso mi dice. Comunque sia, anche qui come ne I ruderi del Tauro (L'Arcolaio, 2009), Enrico continua la sua personale torsione e manipolazione del linguaggio. Nei Ruderi il linguaggio era non solo, come osserva Francucci, usato, riusato e "raschiato", come ripiegato su sè stesso, con una valenza (aggiungo io) gnomica e anti-fàtica insieme. ma anche (aggiungo sempre io, ma di questo spero di aver modo di parlare meglio altrove) caricato di altre funzioni che potremmo definire psichiche o metapoetiche. Qui invece la lingua poetica è programmaticamente sottoposta al regime carcerario della forma chiusa, del metro, della rima, ma senza nessuna pretesa di rinnovare tradizioni o di usare la forma in modo iconico o ironico. Il che non vuol dire che non ci sia una attenzione "culta" verso certe modalità, come nel caso del richiamo alle "frottole" , canzoni sentenziose quattro-cinquecentesche, o alle ottave, componimenti tanto popolari nella Sicilia di De Lea quanto nella mia Toscana. Ma quello che interessa è il tentativo di Enrico - apparentemente paradossale - di rinchiudere l'idea (sia essa una piccola meditazione sulla morte o una memoria) dentro l'angusta cella della forma, e ivi illuminarla come alla luce d'una feritoia, e liberarla, renderla acuminata, come in certe chiuse quasi epigrammatiche che qui è possibile leggere.
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Mercoledì, 4 agosto 2010
Torno spesso, nelle mie riletture, su Amelia Rosselli. Una autrice che trovo fondamentale nel Novecento italiano per la carica innovativa, l'uso della lingua (o delle lingue), il contributo, in gran parte inconsapevole, che ha dato per una visione un pò meno provinciale della poesia nostrana. Ripropongo qui alcune poesie da "Sleep", la raccolta in inglese che Rosselli scrisse tra il 1953 e il 1966 e che trovò una prima pubblicazione nel 1989 a cura e con traduzioni di Antonio Porta presso Rossi e Spera e una successiva nel 1992 presso Garzanti a cura di Emmanuela Tandello. I testi attingono a queste due edizioni e offrono l'opportunità di confrontare anche due diverse modalità traduttive, quella più poetica e inventiva di Porta e quella più "letterale" della Tandello, oltre ad alcune di "prima mano" della stessa autrice. Interessanti a questo proposito le osservazioni che la Rosselli fece in una intervista del 1990, nella quale tra l'altro accennava a idee contenute nel suo noto saggio "Spazi metrici":
Confrontando le versioni da Sleep di Emmanuela Tandello, tue e di Antonio Porta, gli esiti a tratti divergono. Come consideri i diversi criteri interpretativi?
Non ci sono mille modi di tradurre ma di atteggiarsi verso l'originale. Se sono intervenuta sul lavoro di Porta è stato solo su particolari e non per alterarne il risultato complessivo. Non ho mai forzato la sua impostazione fino al punto di pretendere il rispetto per gli enjambements. Mi piaceva l'energia delle sue invenzioni, però faticavo nella lettura perdendomi ritmicamente. Avrei voluto parlargliene: sarebbe stato interessante ascoltare la sua opinione. Purtroppo non riuscimmo ad incontrarci. Emmanuela Tandello ha invece un'idea piuttosto letterale della traduzione. Per il grosso pubblico è bene semplificare fin quanto è possibile, senza raggiungere naturalmente una pura e prosastica letteralità. Rispettando gli enjambements si semplifica, e nonostante l'italiano sia due volte più lento dell'inglese si rispetta il ritmo. Dal 1958 uso questo sistema: l'ho suggerito alla Tandello e mi è parso che le sue versioni guadagnassero in velocità.
Che problemi hai incontrato nel tradurre i tuoi testi?
Da principio la traduzione era letterale e poi si è andata affinando. L'inglese è una lingua più fluida dove è essenziale l'enjambement, che in italiano si può eseguire o meno. Ma per me è una lingua acquisita. Non mi considero un'eccellente traduttrice dall'inglese. Ho provato dallo spagnolo e mi è risultato facilissimo. Non uso dizionari di sinonimi. Magari sono troppo pignola e attenta al significato letterale. E un andare controcorrente perché oggi piace il rifacimento. Mi incuriosiscono sia l'equivalenza dei termini che la corrispondenza complessiva. Sento di più il ritmo e la fonetica che la ricchezza del vocabolo, più che altro inconscia e direi sofferta. Occorre rinunciare all'attenzione alla metrica per non porsi un problema ulteriore. Non mi interessa riprodurre un'impostazione metrica. Seguendo l'enjambement si riproduce invece il tono generale, la ritmica generale. Di sicuro non voglio distorcere il senso. Anche in certe poesie che possono sembrare caotiche, perché scritte in piena libertà, per gioco e divertimento e senza la preoccupazione di pubblicare, non meno essenziale è l'aderenza al significato.
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