Martedì, 29 giugno 2010
Bernard Nőel e il tempo capitale
di Alessandro De Caro
La poesia di Nőel è un organismo in continua mutazione, che non rimanda soltanto ad una concezione esistenziale dell’uomo- immagine retorica, se si
vuole, di cui abbiamo avuto infinite varianti- ma ne spinge le radici più lontano, producendo qualcosa come un ostacolo, tattico e politico, alle
rappresentazioni dominanti. Penso sia depistante leggere Nőel come un poeta dell'anima e della riflessione, comunque la si voglia intendere; a
somiglianza di altri autori di area francese, come Blanchot o Bataille, il suo lavoro è un atto di resistenza nei confronti delle categorie in cui, da
sempre, la critica tenta di ridurre la letteratura. D’altra parte, la cifra filosofica e politica di questo scrittore e intellettuale consente di
verificare fino a che punto una certa poesia francese del Novecento ha potuto essere, tra le altre cose, un’autentica poesia civile. In questo saggio
prenderò in esame il canto uno de La chute des temps[i].
1.
qui
et de ce mot lancé
est-ce vers toi ou bien vers qui
la vieille plainte déchire
chacun confond le sang et le savoir
il y a fuite d’avenir
chi
e di questa parola gettata
chissà verso di te o verso chi
l'antico lamento strazia
ciascuno confonde sapere e sangue
c'è una fuga di avvenire
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Venerdì, 25 giugno 2010
Due testi di Maura Del Serra, in questo ottavo post dedica to alle traduzioni uscite dai "Mattutini", i laboratori ideati in occasione dello scambio di esperienze poetiche italo-francesi a Pistoia nella primavera del 2009. La traduzione è di Dominique Sorrente, già presente su Imperfetta Ellisse con un suo testo tradotto da Valérie Brantôme e me (v. qui)
Dietro il sole e la notte
Corremmo all'infinito, a perdicuore, dietro il sole e la notte; ci tuffammo dentro il profondo vino solitario d'amore; toccammo terra, ed era grigia e densa, e soffice di cenere il mattino. Sì, il giuramento fu vano – illusione, forse, di quel profondo aereo vino. Ma pensa, figlio, ma credimi, figlia: se non avessimo giurato azzurro allora, non fareste oggi, danzando dietro il sole e la notte, quello stesso cammino.
Derrière le soleil et la nuit
Nous avons couru sans cesse, à coeur perdu derrière le soleil et la nuit ; plongé dans les abîmes du vin solitaire de l'amour ; nous avons touché la terre, elle était dense et grise, et moëlleux de cendres, le matin. Oui, le serment fut vain – illusion, sans doute, de ce vin dense et subtil. Mais penses-y, mon fils, mais crois-moi, ma fille : si nous ne nous étions juré l'azur, alors vous ne seriez pas là aujourd'hui, à danser dans le sillage du soleil et de la nuit, sur ce même chemin.
L’Una
Tu dall'alto di un jet puoi contemplare tutte le strade per salire in vetta: ma i tuoi piedi non possono percorrerne che una. Dal computer, dal gossip di Babele tutte le lingue del mondo ti avvolgono: ma una e sacra è soltanto la tua lingua materna, la fedele e perfetta. L'arte può farti vivere ogni vita, scagliarti negli abissi o nella luna: ma di una sola vita tu puoi testimoniare, sentirla eterna. Nella vigna dei popoli e delle generazioni muore forse il tuo àcino in un grappolo nascosto che i vignaioli non colgono: e quella per te è la storia, e niente la cancella.
L’unique
Toi, du haut d’un avion, tu peux contempler toutes les routes pour grimper au sommet : mais tes pieds ne peuvent en parcourir qu’une seule. En provenance de l’ordinateur, des commérages de Babel, toutes les langues du monde t’enveloppent: mais seule demeure ta langue maternelle, une et sacrée, et fidèle et parfaite. L’art peut te faire vivre n’importe quelle vie, te projeter dans les abysses ou sur la lune : mais tu ne peux témoigner que d’une seule vie, et la sentir éternelle. Dans la vigne des peuples et des générations ton grain meurt peut-être dans une grappe enfouie que le vigneron ne cueillera pas : et pour toi, c’est là qu’est l’ histoire, celle que rien n’effacera.
Trad. Dominique SORRENTE
note biografiche di Maura Del Serra qui note biografiche di Dominique Sorrente qui
Lunedì, 21 giugno 2010
Poesia e verità
A Carlos Marzal
Nella natura non c’è niente di malinconico assicurava Coleridge. Sono uscito a guardare tra le nuvole quiete una luce simile alla luce triste che scrivono i poeti. Lo splendore solenne e ripetuto del tramonto al coprire l’aranceto è tutto quel che c’era. Si celava il sole che più volte hanno descritto le poesie che negano quanto sostenne Coleridge, ma il cui profi lo inoffensivo e nobile ho potuto osservare, e non era uno spento cristallo di pena.
Poi ho poggiato i miei occhi sopra alcune più semplici presenze, nel caso vi si trovasse l’alito estinto che offusca le cose essenziali della natura, a cui concede un dono oscuro, una verità ombrosa, già cantata: né nella vegetazione umile, né nelle braccia immobili dell’albero, né nelle pietre —che sono il tempo puro—, né nella casa in rovina dove si annidano gli uccelli, ho visto nel suo dominio la malinconia.
Perciò sono tornato dove ero, persuaso, sereno, e al tempo stesso avvolto interamente nella nuova ignoranza che questa certezza tesse, perché ho visto che nella natura niente è malinconico finché non la pensiamo. Chi la contempla ha, forse come Coleridge, la sola ansia d’essere testimone muto del suo muto fragore, ma nel considerarla, nel trattenerne la luce, si apre lì, irrimediabilmente, nella coscienza, l’esausto fiore mentale della malinconia.
Poesía y verdad
A Carlos Marzal
En la naturaleza no hay nada melancólico, aseguraba Coleridge. He salido a mirar entre las nubes mansas una luz semejante a la luz triste que escriben los poetas. El resplandor solemne y repetido del ocaso cubriendo el naranjal es todo lo que había. Se ocultaba el sol que tantas veces han descrito los poemas que niegan lo que sostuvo Coleridge, pero cuya silueta inofensiva y noble he podido observar, y no era un apagado cristal de pesadumbre.
Luego he puesto mis ojos en algunas presencias más sencillas, por si estuviera en ellas el hálito extinguido que ensombrece las cosas esenciales de la naturaleza, que les otorga un don oscuro, una verdad umbrosa, ya cantada: ni en la vegetación humilde, ni en los brazos inmóviles del árbol, ni en las piedras –que son el tiempo puro–, ni en la casa ruinosa donde anidan los pájaros, he visto en su dominio a la melancolía.
Así que he regresado adonde estaba, persuadido, sereno, y a la vez envuelto enteramente en la nueva ignorancia que esta certeza teje, porque he visto que nada es melancólico en la naturaleza mientras no la pensamos. Quien la contempla tiene, acaso como Coleridge, el sólo afán de ser testigo mudo de su mudo fragor, pero al considerarla, al detener su luz, se abre allí, sin remedio, en la conciencia, la exhausta flor mental de la melancolía.
De "En la estación perpetua" 2000
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Mercoledì, 16 giugno 2010
Il settimo "foglio" dei lavori di traduzione eseguiti nella primavera del 2009 durante la visita a Pistoia dei poeti francesi dello Scriptorium di Marsiglia riguarda la versione che Valérie Brantôme ha eseguito di una bella poesia (peraltro già presente in rete) che Martino Baldi ha scritto in occasione di una sua permanenza nei Caraibi dove, secondo quanto mi scrive, svolgeva la mansione di istitutore privato di due marmocchi di un qualche notabile locale. Una elegia moderna, tra Lee Masters e Walcott, o, rovesciando Ungaretti, una malinconia di naufragi terrestri che Valérie rende con accuratezza e rispetto dell'armonia (basti confrontare gli ultimi tre versi per rendersene conto).
Sulla tomba di James U. Curtin, nel centenario della morte
A Quarantine Point, un promontorio roccioso proteso a mezz’aria verso il mar dei Caraibi, che lo circonda quasi a trecentosessanta gradi, all’estremo sudovest dell’isola di Grenada, in mezzo a grandi pietre rade sparse su un prato misteriosamente verde e apparentemente curato in mezzo alla foresta bruciata dalla stagione arida, c’è una sola tomba con un piccola modestissima lapide, ai piedi di un piccolo arbusto sempreverde. Probabilmente è il primo e l’ultimo punto della costa da cui si avvista il sole rispettivamente all’alba e al tramonto. Sulla lapide è incisa una scritta, orientata non in direzione dei passanti ma in direzione del mare e del tramonto: In loving memory of my dearly beloved husband James U. Curtin. Born Toronto Oct. 29, 1875 - Died March 24, 1907.
Infine giungerai a questo palmo di terra, a questo assurdo tuffo di un prato inglese strappato alla foresta, al gesto di una mano di roccia aperta verso il mare e troverai, forse, le ragioni che mossero ogni tuo illecito passo verso il nulla, ogni respiro strette in convivio poco prima dell'alba sulla lapide azzurra dell'oceano, e sull’altra minima e ferma le tue labbra ritrarsi nel silenzio che si irradia prima e dopo la scena. E troverai nel nome di un fratello, my dearly beloved husband James Umbert Curtin, ancorato e steso qualcosa che ti stringe e lì saprai che c’è, che esiste, che non muore il qualcosa nascosto che si perde, il patto segreto del viaggio. E forse per qualcosa avrai dovuto attraversare i cieli e le foreste, sentire il canto acuminato delle scimmie e dei serpenti mentre cala la nebbia notturna nel vulcano e nel verde più verde, nell'azzurro più azzurro, nel nero più nero per qualcosa, forse, avrai dovuto vedere spalancare le fauci della bestia letale e l'omicidio perfetto pronto da estrarre nel fodero della notte.
Oh, beloved wife, Miss Curtin, che cent'anni adesso gravano sulle tue lacrime, quale errore mi guida qui, testimone in ritardo del doloroso culmine del tuo amore, ignota invidia degli amanti che non sanno che la luce dell'inizio è la luce della fine e la luce della fine un tepore eterno e che i nostri stupidi gesti altro non sono che l'ombra della tua infuocata speranza di salvare qualcosa che non esiste se nessuno la nomina. Miss Curtin, in nome della luce del cui mistero è ombra, io ti chiedo cosa è accaduto veramente qui, ti chiedo di conoscere il miracolo che ti spinse ad amare quest'uomo fino a offrire per sempre alla sua fronte il mare. Lo invidieranno adesso Elena e Didone e le più nobili amanti dei poeti a cui cuori di carta offrirono pomi di cartone, non questa felicità improvvisa della sorte questo perpetuo bacio sulla fronte un infinito "buongiorno (o buonanotte), amore" che con l'andare del sole gli ripeti e che insegni adesso a chi si spinge fino alla soglia marina del cercare, in questo piccolo spoglio e nascosto definitivo mausoleo della luce.
Martino BALDI
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Sabato, 12 giugno 2010
Una scrittura molto particolare, quella di Michelangelo Ricci, in questo suo libro "Droga". Magmatica, esorbitante, debordante, ossessiva, percussiva, a volte infantile e scatologica, a tratti ecolalica. Ma sopratutto libera, fluviale, anarchica e menefreghista (di canoni, ritmi, modi e stili) e, come sua ratio e somma giustificazione, assolutamente teatrale e teatrante, cosa che risulta evidente anche ad ignorare il curriculum dell'autore. Per lo più testi lunghi, di ampio respiro, pensati come monologhi. Per cui leggersi queste poesie in silenzio, magari a letto prima di addormentarsi, è partire già col piede sbagliato. Bisognerebbe probabilmente alzarsi, con o senza pigiama, mettersi davanti a uno specchio o sul balcone, e declamarle a voce altissima. Sperando che nessuno chiami la polizia.
Dice Ricci in un'intervista: D: A leggerle sembrano quasi un discorso che ti fai ad alta voce. Predomina il suono più della struttura letterale.
R: Il tentativo è quello di fare delle poesie che siano del suono non delle parole scritte. Penso che uno che non le ha mai sentite recitare e ci si metta davanti, a livello di struttura, possa avere delle difficoltà, poi se prova a dirle a voce alta è semplice. Questo è il trucco. Così i letterati dicono che te non sai scrivere e di loro ce ne liberiamo fin da subito. Ho provato a togliere l'aspetto letterario delle mie poesia affidandomi alla poesia POP. Spero di aver fatto della poesia POP, ovvero dare ai miei testi una vestitura che non fosse di complessità, di essere astratta, di non sapere di cosa si parla. E presentarle al pubblico in forma di reading vuole essere una conferma di questo, il fatto cioè che tu provi con delle musiche a dare un ritmo così che la rendi più fruibile.
D: Ci viene quindi da chiederti dove sta la poesia nelle tue poesie?
R: Quindi la poesia sta? Se sta non è. O la senti o non la senti. E' indistinguibile la forma dalla sostanza nella poesia, forse questa distinzione va bene in altri tipi di arte che non possono essere né la pittura né la poesia; forma e contenuto qui sono identici.
dall'intervista di Rita Di Ianni e Laura Barbieri su "Pisanotizie.it"
E l'editore? Dice sempre Ricci nell'intervista: "Scomparsedizioni. Questo editore è venuto da me, mi ha voluto pubblicare il libro, me lo ha fatto arrivare ed è scomparso, non c'è più, non c'è l'indirizzo, non c'è nome, nulla. (Ride)"
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Martedì, 8 giugno 2010
Sono particolarmente soddisfatto di presentare, in questo sesto appuntamento con gli "esercizi" di traduzione prodotti a Pistoia nell'ambito dello scambio poetico italo-francese dello scorso anno, Angèle Paoli, poetessa raffinata e "donna mediterranea" di robusta radice còrsa con cui ho già qualche dimestichezza. Ho infatti tradotto in un paio di occasioni alcuni suoi testi su questo stesso blog (V. qui e qui). I testi qui pubblicati sono nella bella traduzione di Alessandro Ceni, a cui per completezza ho aggiunto un terzo nella traduzione altrettanto limpida di Maura Del Serra. Poesie di lirismo e ricerca, e insieme "insulari", come molta della produzione di Angèle, in cui il territorio, le radici, le vastità che circondano la terra e l'anima ispirano attraverso un linguaggio plastico versi di grande suggestione, che mi hanno sempre affascinato.Orée
Orée où j’entends bouche - ta bouche soluble os de seiche édenté- du plus loin qu’il me revienne que dit la bouche d’encre - creux d’orages j’interpelle les vents pommadés vert je tends l’oreille aveugle aux voix contraires je hèle-hisse tes paroles tirées de l’entre-deux où tombées sinon dans l’oracle -âcre l’encens agaçant les seuils- labyrinthe d’échos du dehors du dedans les morts et les vivants coassent copulant à l’orée du bois or ogre y es-tu que fais-tu où dors-tu peut-être assoupi en un répit-refuge enroulé de feuillages à froisser-fuir dois-je me garder -esprit en éveil- des rives en tumulte traquées par flots ouverts
- Osiris te voilà
d’où viens-tu dispersé à l’orée du bois or corps et âme errants à l’abandon du jour de quelle rage -victime abolie- vagis-tu quelle lame fiévreuse a fouaillé tes fibres dépecé os et peaux tes membres alentour disloqué épouillé jeté sans sépulture au cloaque fécal qui donc sinon ta sœur infatigable Isis peut rassembler tes os délavés par la vague sans cesse travaillée de rêves hivernaux.
Limitare
Limitare dove odo bocca- la tua bocca solubile osso di seppia edentato- da più in là che mi ramenti che dice la bocca d’inchiostro- incavo di burrasche io apostrofo i venti impomatati verde tendo l’orecchio cieco alle voci contrarie chiamo-isso le tue parole tirate dal giusto mezzo dove cadute se non nell’oracolo -acre l’incenso infastidiando le soglie- labirinto di echi da fuori da dentro i morti e i viventi gracidando copulanti al limitare del bosco aureo orco ci sei chef ai tu dove dormi tu forse assopito in una tregua-rifugio arrotolato di fogliame da sgusciare- fuggire devo io guardarmi-spirito in erta- dalle rive in tumulto braccate dai flutti aperti
-Osiride eccoti
donde vieni tu sparso al limitare del bosco aureo corpo e anima erranti all’ abbandono del giorno da quale rabbia- vittima abolita- vagisci tu quale ondata febbrile ha sferzato le tue fibre tagliato a pezzi ossa e pelli le tue membra all’ intorno slogato spidocchiato gettato senza sepultura nella cloaca fecale chi dunque se non tua sorella infaticabile Iside può radunire le tue ossa dilavate dall’onda senza posa lavorate da sogni invernali.
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Venerdì, 4 giugno 2010
Ho chiesto a Marzia Alunni di scrivere qualche intervento per Imperfetta Ellisse. Ecco qui una sua recensione di "Senza titolo", una plaquette di Sauro Damiani edita da Bandecchi e Vivaldi. Ringrazio Marzia della sua gentilezza.
LA RIVOLUZIONE QUIETA DI SAURO DAMIANI
di Marzia Alunni
La gradevole plaquette “Senza Titolo” di Sauro Damiani invita i lettori a recuperare la capacità di sorprendersi. Il percorso testuale, che l’autore propone, mostra segnali in tal senso, piccole riflessioni, microtesti, contrassegnati dall’originalità, nel corpo intero dell’opera. Emblematica è poi la negazione del titolo, non sembra una rinuncia, piuttosto si può dire che il senso comune viene messo in discussione. Perciò il titolo si è, in fin dei conti, dissolto nel cielo senza lasciare traccia, come avviene alle nubi, secondo l’autore, continuando però ad esercitare il suo ruolo indicativo. L’opera è caratterizzata da un’intima coesione, sebbene i versi, di varia natura metricologica, brevi e lunghi, siano separati da asterischi. Sono pause, nel linguaggio musicale della testualità, invitanti alla meditazione, non dunque cesure drastiche. In sostanza, gli aspetti formali del testo non disdegnano le esperienze vivificanti delle avanguardie, ad esempio, con il rifiuto della maiuscola ed una punteggiatura creativa che denota senza interrompere, con il punto a fine discorso, in maniera pedestre. Damiani reinterpeta i modelli culturali e della letteratura, lasciando trasparire un sottile filo d’ironia che annulla le distanze e le difficoltà del comunicare. Nel suo lavoro si apprezza una sorta di tensione etica anticonformista, essa nasce dal contrasto fra slanci lapidari e lirici come “mi sono immerso nel cielo di una rosa” (pag. 21) e sequenze profondamente meditative, tautologiche a bella posta, ed autoironiche, caratterizzate da una certa libertà formale. Ciò che cambia spesso è il quadro di riferimento assoluto, la weltanschaung aperta alla critica, al dubbio. S’impone dunque l’esigenza di modellare il proprio stile ai connotati dell’aforisma e della sentenza, beninteso, alla luce della poesia che è gioco sublime e non rinuncia tuttavia all’irriverenza. La quiete, forse comoda, del contemplare il bello non appaga del tutto il poeta se l’unico atto umano e puro è compiuto da un ignoto “vu cumprà”: “con lingua dissonante / un vu cumprà / mi ha ceduto il posto su un bus affollato / consonando / col cuore del cuore / vicino a lui era seduto un cellulare…” ( pag. 9). Si noti il contrasto fra il cuore ed il cellulare, non ha bisogno di commenti! Mettere a soqquadro la tentazione di fornire un messaggio banale diventa un’esigenza insopprimibile, da qui l’aggancio ad un’assiologia. Se il lettore accetta di superare l’ovvietà allora è possibile credere in un verso come “chissà che non mi trasformi in fiore…” dove l’aspetto di ribaltamento delle abitudini sta tutta in quel “chissà”, che poi è, sul piano retorico, un’anafora in quanto lo troviamo immediatamente nel verso successivo inoltre il verso allude con gentile ironia all’autore. Per completare l’analisi di quest’opera c’è da aggiungere che Senza Titolo si propone con eleganza discreta, ma decostruisce, rappresentando una specie di rivoluzione quietamente provocatoria. S’intravede questa provocazione lapidaria, eppure indovinata, nel verso: “se incontri Dio / uccidilo” (pag. 23), è giocoforza ricordare che Cristo è già stato messo in croce, un’altra diviene la questione che si vuole porre: la manifesta impossibilità dell’incontro con un Dio incommensurabile e poco incline alla ‘flessibilità’ umana. Essere disposti all’invettiva piena di “minacce” ha quindi tutta l’aria di un tentativo di avvicinamento, ne esce ridimensionato il dramma, perciò, forse, non è così difficile incontrare Dio se gli si fa sapere che, ironicamente, arriviamo al punto di minacciarlo. Un’altra parallela interpretazione è quella del prometeico grido di protesta, ma il poeta non si concede ad ulteriori cedimenti di rabbia strumentali, preferisce allora non avere “ nulla da dire”, piuttosto molto da suggerire, con l’aiuto della poesia e di chi segue la sua scrittura.
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