Non
è agevole parlare di un libro che, in un certo senso, non c'è. Non ha
ancora forse la sua stesura definitiva, la sua struttura organica,
forse nemmeno il suo titolo, e vive nei dilemmi della sua autrice. In
questo corpo ancora in mutazione come quello di un adolescente non è
facile dire cosa venga prima e cosa dopo, attorno a quale nucleo
temporale l'ispirazione dell'autrice si sia addensata.
Ma non importa, basta incominciare a leggere. Questo libro, che per
comodità ipotizziamo di chiamare "I Compianti", nasce dalla penna di
Maria Pia Quintavalla. E nasce, come mi dice Maria Pia in un suo
messaggio, da un evento luttuoso e dalla conseguente chiusura di un
"luogo", in senso non solo metaforico ma anche fisico. So per
esperienza cosa significa, dopo la morte dell'ultimo genitore rimasto,
non solo chiudere una casa, ma anche svuotarla di cose, oggetti a cui
siamo legati, ricordi tangibili e concreti, suppellettili, insomma una
vita intera, "quel groviglio di mobili e cimeli", dice Maria Pia. Il
compianto che ne nasce è rimpianto, nella migliore delle ipotesi. E'
rimorso invece quando, nella peggiore, ci si lascia sommergere dalla
sensazione che attraversata quella soglia, fisica o metaforica che sia,
ogni comunicazione (il non detto ma soprattutto quello che avrebbe dovuto
essere detto) sia interrotta per sempre. E' questo forse il nucleo
centrale di questo libro: la radicalità degli eventi, quando la poesia
rimane un'eco, uno strascico, perchè il distacco è definitivo. Si parla
da soli, nessuno risponde, e in questo la poesia assomiglia a una
preghiera recitata contro il muro del pianto.
Roberto Matarazzo, che ha amicalmente illustrato la mia plaquette "Camera di condizionamento operante", aggiunge questa nota a margine sul suo lavoro, pubblicata anche su Erodiade, Libri e dintorni ecc. Lo ringrazio di cuore.
Presentare un lavoro sinergico svolto con l’amico Giacomo Cerrai non mi è semplice.
La plaquette, Camera di condizionamento operante, Edizioni L’Arca
Felice di Salerno, introduzione, coltissima, di Mario Fresa, e con mio
pensiero visivo oltre che con ulteriore figura in bianconero, ha
eleganza e leggerezza, poesia alta e ideatività sorprendente.
Quando G. Cerrai mi propose di contribuire al suo lavoro rimasi
piacevolmente colpito dallo stesso invito: da non critico amo, da
sempre, fantasticare nei dintorni del sentire e del successivo rendere
in metamorfosi idee e contenuti di Autori in cui credo. Ho coniato un termine che non trova riscontro in alcun buon
dizionario corrente atto a definire, per quanto le definizioni mi
stiano strette, l’artista che si cimenta con questo genere di lavoro,
ovvero il biblioiconico. Specifico che sia rendere i testi della mia biblioteca sorta di
unicum mediante applicazione di specifici fogli colorati, ex libris,
appositamente realizzati per i singoli volumi, sia lavorare su
possibili copertine di libri e/o figure interne agli stessi testi, per
me ha il medesimo sapore ancestrale dell’avvertire in profondità il
senso delle metamorfosi.
Il biblioiconico, in altri termini, è figura di artista in eterna
disponibilità a carpire possibili segreti legati all’Autore e rendere
questi misteri in forme grafiche e/o timbriche elaborate con passione e
rispetto, certo non riducendo l’insieme a mera illustrazione di opera
d’arte, mi annoierebbe e non mi intrigherebbe, ma, bensì, a lettura
sinestetica, iconica/aniconica, dell’opera e resa della stessa sotto
linguaggio altro.
Leggere in anteprima i versi non facili di Giacomo Cerrai,
catturarli nel mio immaginario, darne una doppia suite di resa, una in
bianco nero, l’altra in colori, è stata sfida che mi ha molto stimolato
sul piano delle idee e del fare, del resto le sfide semplici non
conducono che al nulla più assoluto! Ricordo sempre quando lavorai alla
resa iconica dell’Ulisse di James Joyce, metamorfosi novecentesca
dell’Odissea di Omero, a sua volta metamorfosi (in)certa di poemi
perduti tra il Mediterraneo e i deserti del Medio_Oriente, e alla
relativa difficoltà del voler rendere in colori la estrema qualità
letteraria del volume (mitica edizione Mondatori collana Medusa) e alla
gioia infinita di averne data reinterpretazione originale e non
retorica, segni evidenti di aver assimilato la vera lezione Joyciana
che mai ha copiato Omero per averlo realmente compreso negli stimoli
ideativi.
Dunque l’essere Biblioiconico o, meglio, porsi da, e nei riguardi
dell’Amico ha voluto dire per il me artista prima sentire in profondità
il senso poetico dei versi amicali, poi la sottile introspezione che
trasforma i versi stessi in segni e figure, poi la resa su fogli di
questa ultima metamorfosi, per poi percepire l’insieme e leggere nei
colori i versi, vedere nei versi i colori.
Grazie, Giacomo, per avermi coinvolto in questo lavoro emozionante, immaginifico.
Dal mio punto di osservazione Chiara De Luca si conferma, oltre che attivissima traduttrice e operatrice culturale, anche un utile medium per dare uno sguardo al di là dei confine dell'Italietta poetica, cosa che cerco di fare anche sul versante francofono. Dopo Thomas Kinsella (v. qui) e Werner Lambersy (v. qui), tutti editi da Kolibris, ripropongo John Barnie, poeta gallese che scrive (anche) in inglese, nato nel 1941 a Abergavenny nell'area rurale del sud est del Galles, poeta che "esplora il confine tra la cultura dell'uomo e il mondo della natura", oltre, a quanto si legge qui sotto, ad altri confini. Dice infatti egli stesso in una intervista su questo libro 'Trouble in Heaven": "le poesie di questo libro coprono parecchi temi che mi hanno interessato se non ossessionato per molto tempo: la bellezza e l'orrore del mondo naturale (mi sembra che l'una non possa essere separata dall'altro), e collegato a questo, la natura dell'uomo e cosa noi stiamo facendo al mondo nella nostra spensierata e a volte feroce maniera. Inoltre, la questione della religione. Io sono stato allevato, ma in maniera riluttante, come cristiano, e parecchio di quello che scrivo può essere visto come un dialogo con la cristianità, ma con l'idea di un Dio in cui trovo sia impossibile credere". (g.c.)
Come tutti i libri potenti e necessari, questa raccolta di John Barnie non porta scompiglio soltanto in cielo, bensì anche nelle nostre coscienze, spesso assopite per difesa, o per eccesso di stimoli. Ci troviamo qui di fronte a un mix esplosivo di grande sapienza ritmica e maestria formale, profonda conoscenza delle Sacre Scritture, delle teorie darwiniane e delle tappe geologiche segnate dal nostro pianeta nella sua evoluzione. Il tutto rafforzato da un amore sconfinato per il mondo naturale in ogni suo minimo dettaglio, osservato, colto e restituito al lettore. E agli occhi del lettore che, come chi scrive, sia abituato a scenari urbani – dove la potenza creatrice della natura è domata, tenuta a freno, recintata, dove gli unici uccelli superstiti sono passeri e colombi – la moltitudine e varietà di farfalle, volatili, insetti (attuali e preistorici) descritta, ascoltata, compresa dal poeta, schiude, o meglio, riapre un intero universo soltanto intuito. Ma Tumulto in cielo è anche altissimo e coraggioso grido di protesta contro le guerre, gli orrori, le ingiustizie dell’Umano, contro le dinamiche perverse del potere e le spaventose atrocità che costellano la nostra Storia e le nostre storie, adombrate, alluse o messe esplicitamente a nudo. Ed è un dubbio che s’insinua, rimestando le carte, ridistribuendole, scardinando con ironia intelligente o acuto scetticismo i principi fondanti del cristianesimo. Il “Vecchio Furbone” di Barnie è un Dio fragile, che ricorda le divinità pagane così simili a noi, per difetti, debolezze, fragilità e invidie, così fallibili e vulnerabili. È un Dio assente, per nulla onnipotente, che sbaglia a priori, nel disegnare l’abbozzo della prima cellula. È un Dio che alza le mani, mentre il Figlio invoca un’aspirina e lo Spirito Santo singhiozza. Un Dio che non può salvarci dal Male, perché non è in grado neppure di salvare se stesso. E anche i suoi angeli sono creature fragili, dalle ali sporche e spezzate, minacciati, offesi, caduti, non per colpa né disobbedienza, bensì perché terreni, come agnelli sulla paglia di un fienile. Ma quel che emerge dal tumulto è la fede del poeta in una, seppur remota e nascosta, possibilità che il “partito della bellezza” vinca alle elezioni della nostra anima. La poesia diviene qui la principale artefice della “campagna elettorale”, con una voce priva di promesse e mistificazioni, di retorica e commiserazioni, bensì votata – in ogni sua vibrazione, in ogni suo sussulto, slancio o cedimento – alla ricerca della verità che possiamo carpire, alla celebrazione della realtà che ci è concesso afferrare. Nella mistica del possibile e dell’Umano.
Capita a volte che, leggendo e rileggendo, risuonino in testa armonie segrete, sovrapposizioni compatibili come quando succede di ascoltare casualmente canzoni diverse che echeggiano da due diverse stanze. Capita con qualche maggiore frequenza con la poesia, sopratutto se la si legge da anni. Ecco uno dei casi in questione:
Da ANGELO CIRCONDATO DA PAYSANS di Wallace Stevens (*)
Io sono l’Angelo della realtà, intravisto un istante sulla soglia. Non ho ala di cenere, né di oro stinto, né tepore d’aureola mi riscalda. Non mi seguono stelle in corteo, in me racchiudo l’essere e il conoscere. Sono uno come voi, e ciò che sono e so per me come per voi, è la stessa cosa. Eppure, io sono l’Angelo necessario della terra, poiché chi vede me vede di nuovo la terra, libera dai ceppi della mente, dura, caparbia, e chi ascolta me ne ascolta il canto monotono levarsi in liquide lentezze e afferrare in sillabe d’acqua; come un significato che si cerchi per ripetizioni approssimando. O forse io sono soltanto una figura a metà, intravista un istante, un’invenzione della mente, un’apparizione tanto lieve all’apparenza che basta che io volga le spalle, ed eccomi presto, troppo presto, scomparso.
FORSE UN MATTINO ANDANDO di Eugenio Montale
Forse un mattino andando in un'aria di vetro, arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco. Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto Alberi case colli per l'inganno consueto. Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto Tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Pierre-Albert Jourdan, che il suo traduttore americano John Taylor ha definito "uno
dei segreti meglio conservati della letteratura francese", fu un poeta
discreto la cui opera, pur essendo stata definita essenziale da poeti di grande
levatura, è rimasta ignorata dalla ricerca universitaria e sconosciuta non
solamente al grande pubblico ma anche a quelli, più esigui, che costituiscono il
pubblico abituale della poesia.
Nato il 3 febbraio del 1924 a Parigi e morto il 13 settembre
1981 a Caromb (Vaucluse), Jourdan fece studi di scienze politiche, commerciali
e giuridici e poi lavorò tutta la vita come capo servizio in una società di
trasporti pubblici. Cominciò a scrivere, a partire dal 1956, tenendosi in
disparte dagli ambienti letterari. Dopo la pubblicazione senza eco nel 1961 di
una prima raccolta di poesia intitolata La
Langue des Fumées e marcata dall'influenza di René Char, continuò in
silenzio una produzione abbondante e varia. Fino al 1973 essa si compose
essenzialmente di numerose poesie, restate inedite finchè è vissuto - con
l'eccezione di pubblicazioni parziali in diverse riviste - e raggruppate, dopo
complesse variazioni, in raccolte manoscritte come Le Chemin nu, Ce Torrent
d'ombre.
Non ostante il suo vivere appartato, Jourdan fu amico di
poeti prestigiosi come Henri Michaux, René Char, incontrato nel 1957 e che fece
pubblicare il suo primo e unico libro, o, tra quelli più recenti, Yves
Bonnefoy,Philippe Jaccottet, Jacques
Réda, Lorand Gaspar, che hanno collaborato anche alla rivista fondata da Jourdan,
Port-des-Singes, e gli hanno tributato
diversi omaggi. Oltre ai saggi a lui dedicati, Jaccottet e Bonnefoy hanno
curato le raccolte postume di Jourdan, rispettivamente Le Bonjour et l’Adieu, Mercure de France, Paris, 1991 e Les Sandales de paille, Mercure de
France, Paris, 1987
« Quello che mi ha molto colpito fin da subito in
Jourdan è che la sua poesia e i suoi frammenti non sono affatto dei giochi
letterari, ma mettono in gioco molto profondamente il senso stesso della sua
vita. La scrittura è per lui un mezzo di trasformarsi in meglio, e più
realmente, vivere. A questi fini utilizza una lingua semplice e discreta, che
rende la sua lettura accessibile a tutti, e nello stesso tempo di una
accuratezza che lo rende veramente essenziale se si è interessati al
miglioramento di sé e alle questioni di ordine etico e spirituale » (Elodie Meunier)
Francesco Marotta ha ripreso, sul suo blog "La dimora del tempo sospeso" (v. qui), alcuni testi, e parte della nota introduttiva di Mario Fresa, del mio poemetto "Camera di condizionamento operante", edito da L'Arca Felice. Lo ringrazio infinitamente, anche delle sue parole di stima. Parole che allo stesso tempo lusingano e responsabilizzano fortemente, perchè insieme all'elogio mi sembra rimandino a quella necessità di impegno etico e intellettuale a cui Francesco stesso fa costante riferimento nel suo lavoro. Prego di lasciare eventuali commenti in quella sede.
Dall’ombra all’ombra: variazioni percettive, alterazioni cromatiche, mutazioni temporali, mutamenti interiori. La fluidità del senso non si lascia mai arrestare: trapassa nei flussi della voce che lo enuncia e nella cui grana si incarna, si trasfigura in petali declinati in irriducibili movenze del rosso: magmi carminio, carni porpora, fiamme scarlatte, ondivaghi tessuti. Calligrafie enigmatiche – ulteriori varchi – affiorano, trascolorano, vaniscono. Una frase musicale di viola, bianca di bruciata passione, arabesca l’ultima declinazione in alba del cuore. (nota da www.frattaroli.eu)
L’opera
video che Rita Florit, scrittrice e autrice di video, ha realizzato
insieme ad Enrico Frattaroli, autore di opere teatrali, acustiche e
visive, rappresenta lo scorrere del sangue attraverso i vasi sanguigni
sovrapponendolo al fluire stesso del mondo, della natura e dei pensieri
umani.
Si tratta di un lavoro semplice quanto incredibilmente solenne, che
rimanda all’eco delle più antiche culture, in particolare alla
giapponese, grazie agli ideogrammi che compaiono rosso su rosso nella
creazione della suggestione di uno scorrimento fluido simile a quello
di un panneggio di sostanza organica. Il rapporto costante tra micro e
macro permette allo spettatore di entrare e uscire, di sentirsi parte
in causa e di vedersi, allo stesso tempo, come dal di fuori. Ma se
l’immagine rimanda decisamente alla cultura orientale, il testo e la
voce recitante assumono la valenza costante di un’eco proveniente dal
passato, dal rimosso, un dimensione di costante evocazione. (nota di Francesca Pietracci da melangearte.splinder.com)
Da vedere anche l'intensa nota di lettura che ne ha fatto Alfredo Riponi (v. qui)