Spiaggia d’affogati, cani inquieti,
disarmati bastoni in ampi
lanci vuoti,
riva di ciottoli e relitti.
Possesso e perdita
- a perdita d’occhio -,
e un vento che trasporta nuvole barocche
e insieme l’idea stessa che avevamo
partorito.
E’ in questo preciso posto, credo,
che l’opera si è conclusa, qui
seduti a cercare il silenzio,
a prestito,
di un luogo che non ha colpa,
tranne questo delitto di fine estate,
il décollage da assi fradice
di circhi e tigri
e brani di singole parole
con cui avremmo potuto riscrivere
i nostri nomi, l’opera,
l’idea stessa del suo farsi
menzione o atto.
L’opera era avulsa dal luogo:
era accettabile purchè un dovunque possibile
con semplici tocchi di pennello fosse
in un luogo immutabile,
un luogo di puro proscenio agnostico.
Non stava là, la finzione:
era semmai metafora,
orizzonte indistinto e perciò
promettente come un futuro
senza necessari dove.
Ora si raschiano intonaci,
si disseppelliscono altri porti,
i muri sono senza parole,
senza cornici le nostre esistenze.
E qui, ora, ammutoliti,
il luogo non è
e non essendo ci turba,
perchè noi non possiamo essere noi
senza di esso.
Abbiamo parlato di Campana il 21 e il 25 agosto. Ora rinvengo un articolo di Stefano Verdino "Una copia sconosciuta dei Canti Orfici", già apparso sulla rivista "WUZ, storie di editori, autori e libri rari", un piccolo saggio bibliografico e filologico, che contiene anche notizie e curiosità sul grande poeta, sulla sua attrazione per la cultura francese e i suoi rapporti con l'ambiente culturale fiorentino. Non aggiunge certo molto allo studio di Dino Campana, ma resta comunque una lettura interessante. (Tutti i diritti riservati)
Le parole, con il tempo, cambiano significato o escono dall'uso, diventando obsolete, o semplicemente vengono espulse dalla scena dall'imperialismo delle lingue di volta in volta dominanti. Oppure, e questo accade ogni giorno nei mass media e nella politica, si usurano per ripetizione, assumendo connotazioni negative, in altre parole "sporcandosi". Ma il compito dell'intellettuale e del poeta, come afferma Alain Jouffroy in questo saggio/racconto, è anche quello di ripulirle riportandole a nuova vita.
Alain Jouffroy - Il verbo “straniare” (*)
Io ho senza dubbio troppi amici, è un fatto: ne ho in ogni città da cui sono passato. Non appena arrivo in un paese che non conosco, dove non ho ancora avuto l’idea di passare, io incontro sempre degli uomini, delle donne che, di lì a qualche ora, forse un po’ di più, diventano degli amici. Quando riparto da questi nuovi paesi, in cui mi sono fatto nuovi amici, io li perdo di vista, ma non dimentico mai i loro volti e i loro nomi. Essi vivono allora di un’altra vita, indipendente da essi e dalle loro esistenze, nel mio proprio corpo, come se si fossero esiliati in me. Spesso, al ricordo dei loro nomi, sono le loro voci che ritornano, le loro voci che si mettono a parlare attraverso la mia. Lunga storia, che dura, si rinnova e non cessa di sorprendermi da cinquant’anni: i nomi risvegliano sempre le voci, anche quelle dei miei amici morti.
C’è una ragione a ciò: ho sempre amato i nomi propri, tutti i nomi propri: tutti i nomi di famiglia e i nomi di persona, tutti i nomi dei luoghi, delle città e dei villaggi, dei fiumi e dei laghi, delle pianure e delle montagne, i nomi delle dee e degli dei di tutte le mitologie. Mi sono, fin dalla mia infanzia, sempre serviti da guida, infallibili, nel tempo e nello spazio. Senza di essi, io non mi sarei mai così tanto attaccato alla vita e al reale. Di contro, io ho sempre sentito che, in rapporto ai nomi propri, i nomi comuni erano incerti, sospetti, e anche sporchi.Li ho scoperti uno dopo l’altro con la stessa apprensione, la stessa diffidenza, come se essi mi fossero a priori ostili, e, nel migliore dei casi, di una neutralità sgradevole. E’ dunque con circospezione che io li ho utilizzati, come se il loro uso sconsiderato potesse giocarmi dei tiri mancini, instillarmi la loro malattia, contaminarmi. Molto presto ho compreso che, per usarli senza coprirsi delle loro diverse sporcizie, bisognava dunque, prima di tutto, ripulirli. Ripulirli in maniera radicale, per estrarne i veleni segreti. Ercole è un nome innocente, luminoso. Lavoro è una parola sporca. Ulisse è un nome faro. Ritorno una parola stanca.
Certe memorie scacciano altre memorie. E' un fatto culturale, come certe culture scacciano altre culture, perchè sono più forti, perchè sono più mitizzate, o hanno un miglior ufficio stampa, o forse perchè diventano più "collettive" nell'immaginario della gente, magari rappresentando una paura più grande, almeno per un pò. L'11 settembre nella testa della gente è, per forza di cose, uno solo, per le emozioni e il dolore che richiama, ma anche perchè in molti modi è stato statuito che l'11 settembre è "quello". Poi anche le memorie più "pesanti" incominciano a sbiadire, forse perchè sbiadiscono le emozioni o i timori ad esse collegati, o forse perchè si scopre che Ground Zero sta diventando il simbolo solo della speculazione edilizia. E dopo sette anni ricordare l'11 settembre 2001 è diventato una ricorrenza giornalistica buona per riempire un pò di spazio, molto di più di quello che occupa nella memoria della gente comune. E allora proviamo a ricordare qualcosa di più lontano nel tempo, un undici settembre anche questo, ma di trentacinque anni fa. Una memoria in nome della quale non è mai stata scatenata nessuna guerra.
Il maratoneta di Allende
La storia di Ivan, il tipografo che amava correre con la maglietta «Salvador Allende per sempre». Poi il golpe militare, la tortura e la morte
Eravamo giunti al terzo caffé, e all'ennesimo sigaro. Cubano il suo, brasiliano il mio. Rivedevo Julio dopo quattro anni. Stessa pioggia battente, Santiago che sembrava il solito film in bianco e nero, quel bar al quartiere Providencia avvolto dal nostro fumo e dalle nostre parole. 1995, luglio. Eravamo partiti da Pinochet e dalla sua finta demenza. Per arrivare all'11 settembre 1973, a quando finì il sogno di Allende e cominciarono le violenze, gli omicidi, gli stupri, di quando il Cile era un fiume di sangue, di disperazione, di ingiustizia.
Julio aveva perso i suoi amici più cari, la fidanzata. Riuscì a salvarsi per caso, passando il confine dopo mille peripezie e cercando di sopravvivere al dolore a Rosario, in Argentina. Nel '90 il ritorno a casa. La voglia di ricominciare a vivere, malgrado tutto.
Respiro quest'inverno sospeso
e tutto fuori è pieno di te.
Chiara appare
l'immagine del tempo
un imbroglio che passando
cambia solo ciò che vuole.
Conservo i ritagli dei miei sogni
per un puzzle
da fare insieme
un giorno
davanti al fuoco.
Cade dall'agenda un altro anno
l'erba cresce ancora
e le persiane
restano chiuse.
IN CHE MODO
Lo sai
sono per te
i petali del mio cuore
per te che fai
un passo avanti
e dieci indietro
che t'affacci
tenero
al balcone di notte
e chiudi le imposte a mezzogiorno.
Io tengo in un vaso
i tuoi pensieri
e i miei a mazzi
raccolti nei cassetti
ma non so ancora
in che modo
il bucaneve
sopravvive all'inverno.
Mi ero già posto la stessa domanda riguardo a un certo Giuseppe Scapucci (v. qui), anche in quel caso spinto dalla curiosità dei lettori di gialli: vedere come è andata a finire. Ma tutto quello che so di Enzo Bertinazzo, al momento almeno, è che è nato nel 1925 a Modena e che ha pubblicato un paio di libri in dialetto veneto, tra cui una versione, con introduzione di Davide Lajolo, di venticinque favole di Fedro dal titolo El lupo, el leon, la volpe, el cocodrilo (Milano, 1977). Un pò poco, a parte quello che di lui ha scritto Antonio Porta: "S'incontrano nei bizzarri percorsi che il fare poetico compie nelle regioni più impervie della lingua, procedendo nel proprio lavoro di "scarto", di "deviazione", rispetto all'uso della quotidianità, certe voci e certe persone che in un territorio di per sé ricco di sorprese costituiscono, a loro volta, una sorpresa meno prevedibile o prevista delle altre: sono gli irregolari, i senza patria, i fuori linea che mai per questa ragione, di praticare quelli che possono essere definiti i "sentieri interrotti" della poesia, devono essere considerati meno importanti degli altri. (...) Direi che queste caratteristiche corrispondono tutte bene a Enzo Bertinazzo...", oltre a quelle, aggiunge Porta, comuni in poeti come lui, cioè la capacità di metter in crisi, di "straniare" l'ufficialità, di "non avere età", cioè "di maturare le loro capacità espressive al di fuori di qualunque giuoco di successione generazionale", di affermarsi come autori di un'opera "spesso paradigmatica e sempre impersonale", cioè di un "piccolo classico". Basta leggere questo autore, colto, ironico, padrone della versificazione, a tratti feroce, per concordare con Porta.
da Il Ragno, tema e variazioni
I
Il ragno, bene o male,
è un intellettuale:
non trae da sé l'ordito
d'una trama funesta?
E' un malvagio di testa:
infatti tesse la tela
fra le vive rame di una pianta
che con i suoi respiri incanta
che con i suoi colori cela
l'insidia della morte.
Flette il ragno razionale
la bellezza ai suoi bisogni,
manipola fantasmi e sogni
per il suo sacco ventrale.
Sfido a trovar esempio più sicuro
d'un intellettuale puro.
Recupero dal mio ammasso di ritagli di giornale, con un pò di aiuto tecnologico,questo interessante articolo che Adriano Sofri ha dedicato a un particolare aspetto del poemetto eliotiano "La Terra desolata"
Adriano Sofri - La sofferenza di Eliot
L' opera poetica più importante del Novecento The Waste Land pretende i superlativi, e l' irriverente Christopher Hitchens (che obietta: quando mai si può pensare all' aprile come il mese più crudele?...) deve dichiararla «il poema più sopravvalutato del canone angloamericano». T. S. Eliot lo scrisse a Losanna, dove curava un esaurimento nervoso, nell' inverno 1921-22. Una versione italiana, curata da Angiolo Bandinelli, sostituisce alla consolidata traduzione del titolo - La terra desolata - la citazione dantesca Il paese guasto. (Inferno XIV, 94: In mezzo mar siede un paese guasto). L' ipotesi (compresa la corrispondenza e l' assonanza waste-guasto) è seducente, benché vada contro una nota di T. S. Eliot, che dichiara di aver tolto il titolo dall' opera di Jessie L. Weston sulla leggenda del Graal, From Ritual to Romance (1920). La trafila del rimando dantesco è ricostruita da Carlo Ossola, Dante nel Novecento europeo (2005): dalla Terra guasta di Giorgio Caproni (1960) al Paese guasto di Giovanni Giudici (1982), e analogamente per la versione francese La terre gaste, che era già nel Perceval di Chrétien de Troyes, antecedente dello stesso Dante. Già Renato Poggioli aveva segnalato nel 1955 il parallelo fra il Waste Land e il paese guasto, ma per concludere che, data la testimonianza di Eliot, doveva trattarsi di una mera coincidenza. Più sospettamente, una poesia intitolata Waste Land, di Madison Cawein, era uscita nel 1913 su una rivista che Eliot doveva aver visto.