Cinque poesie di Enrico Pietrangeli, scelte da "Ad Istambul, tra pubbliche intimità", Edizioni Il Foglio 2007, prefazione di Simonetta Ruggeri, postfazioni di Shaykh Abdul Hadi Palazzi, Emiliano Laurenzi e Gino Scartaghiande. Avevo già pubblicato il 29 dicembre 2006 (v. qui), con qualche nota di commento a cui rimando, altri testi di Pietrangeli che poi hanno trovato anch'essi collocazione nel libro.
A Trieste
A Trieste, dannata frontiera,
galleggiano fluttuanti nel porto
profilattici con sembianze di meduse:
decadente magia colora la sera
e il mio cuore prende forma
di valigia in vinilpelle
(modello anni cinquanta)
occasionale avventore slavo
me ne porge il manico scucito.
Ad Istanbul, tra pubbliche intimità - Seconda parte
I
Lunghe e marcescenti chiatte
all’inverosimile affollate
ed io: a sbirciare sacchetti
sotto i veli di due donne;
costantemente sgomitato
da anfetaminici camerieri
nella teiera affogati.
Più che il paesaggio,
mi ritrovo inerte,
schiacciato ad osservare
quanti consumati legni,
primi decenni corrente secolo,
attraversano il Bosforo
profumando i pensieri.
II
Sotto gli occhi Baudelaire
e dentro un minareto su Haliç,
si erige solitario,
dalla mia angusta e sudicia
cameretta di Sirkeci.
Rilancio qui un post di Marco Giovenale dal titolo "Qualche connotato del brutto", apparso il 10 febbraio scorso su Slow Forward, con qualche annotazione. Spero che a Marco non dispiaccia.
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arriva la segnalazione di un lungo testo (di autore italiano neanche giovanissimo) uscito ora in rete. si va a leggere - ed ecco: iterazioni (imbarazzanti) legate ad ambiguitas trita, inversioni a dozzine (”nel deposito arrivano”, “di un bambino il vero”, “perduto luogo”), aggettivazione lussureggiante, immagini veterosurrealiste a bassissima temperatura, io lirico legato a passato remoto, formule fisse (”nessuno vede”, “glorioso passato”, “bellezza sfiorita”), l’impersonale onnipresente nel “si” squartato (”s’apre”, “s’arrende”), vocabolario di cento parole, errori di ortografia, corsivi inopportuni, il “come” sostituito dal “quale” e magari accoppiato a inversione (”agisce quale aspro vino”: e via una citazione), uso di iperboli pacchiane a sostituire espressioni giudicate (a torto o a ragione) scontate. è poi evidente che all’origine dei testi stanno occasioni molto banali, ben semplici. vi viene sovrapposta una griglia formale grezza e vagamente retorica.
queste poche righe non sono scritte senza dispiacere. soprattutto perché qui si constata che:
siti e riviste accolgono colpevolmente i testi poetici senza suggerire nemmeno una traccia di editing. passi per chi sbaglia in prima persona e gioca le proprie carte sul proprio blog. ma una redazione che non si assume il compito di dialogare con gli autori che interpella, entrando anche in conflitto su alcune scelte testuali, è la conferma di uno stato di fatto (pessimo): assenza assoluta di critica, e soprattutto di trasmissione della critica. è un compito che le redazioni hanno sempre avuto, fin qui. e a cui stanno rinunciando, sembra.
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Riprendo questo post per diverse ragioni. Una è che si tratta di un modo di interloquire alla distanza con M.G. che, come noto, non ammette repliche o commenti sul suo blog, scelta peraltro che mi sembra di tempo in tempo sempre più condivisibile. Un'altra è che, come diceva una vecchia pubblicità, due è meglio che uno, e questo post contiene concetti che è bene ribadire e chiama in causa la nostra presenza sulla rete. Co-incidentalmente, proprio in questi giorni, pur aderendo a una iniziativa collettiva, ho rinunciato a rilanciare in questo spazio alcuni testi che, pur con tutta la buona volontà, non potevano essere pubblicati. Questi testi poi sono apparsi altrove. Dico subito che il mio è stato un giudizio estetico e per ciò stesso non dirimente perchè dei gusti non è dato discutere, ma decisamente di sbarramento. Ma dico anche che non ho certo la presunzione di aver fatto una non-scelta di qualche pregio, proprio per le ragioni che adduce Giovenale. Ovvero: ho creduto di rilevare il brutto, ma poi l'ho rimosso, non esponendo le ragioni critiche della rinuncia a pubblicare. Per quanto un blog non sia e non possa essere una casa editrice, io credo che il problema sia comunque presente, se il blog non è totalmente autoreferenziale, e che un esercizio della critica, in piccole o grandi proporzioni, sia sempre necessario, perfino tra amici. Il brutto (ma anche il mediocre che secondo Croce è moralmente peggiore del brutto perchè più insidioso, in termini di evidenza - cioè in medio non stat virtus) non è un concetto astratto, sebbene sia fluttuante nel tempo. Giovenale ne dà qualche breve connotato, è vero, ma legandolo correttamente a una griglia di riferimento stilistica e concettuale, e anche all'idea che se non fai critica non la trasmetti, non cresci. Credo che sia, in un ambito "suscettibile" come quello della poesia, l'unico approccio metodologico valido. Se poi qualcuno se la prende, pazienza...
Dice Renato Poggioli, amico e storico traduttore di Stevens:"Di fronte al mondo degli uomini, schiavo del proprio pathos, il mondo delle cose sembra dominato da un ethos profondo e solenne, dalla volontà di liberarsi dalle catene del caotico e dell'amorfo. Proprio per questo il poeta contempla l'universo dal punto di vista dei "sette giorni della creazione", o, come egli dice, "quando alle cose si rompe la crosta". E le cose sono a preferenza creature o fenomeni, animali e piante, stagioni ed elementi. Talore esse sono soltanto oggetti, che Stevens contempla nel Gestalt o nella configurazione ch'essi vengono a formare, anche soltanto per un attimo (...) Più spesso sono forze in movimento, come il "merlo" a cui il poeta guarda da "tredici punti di vista" (...)". I testi sono tratti da "Mattino domenicale e altre poesie" - Einaudi 1988, uno dei miei "pillow books".
The Beatles - Blackbird (mp3)
Tredici maniere di guardare un merlo
I.
Fra venti monti nivei
L'unica cosa mobile
Era l'occhio del merlo.
II.
Ero di tre voleri,
Come un albero
Su cui stanno tre merli.
III.
Girò il merlo sui venti dell'autunno.
Fu breve parte della pantomima.
IV.
Un uomo ed una donna
Sono uno.
L'uomo e la donna e il merlo
Sono uno.
V.
Non so se preferire,
Bellezza di cadenze
O d'allusioni,
Il sibilo del merlo
O quel che segue.
Allorché io andai
approdi futuri
inermi garriti.
Il mondo intero labbra non ha,
perso è l’arco ridente.
Flaccido cascame di ottusa chiusura.
Ho visto viole oggi in giardino,
tu non esisti in nessuna stagione.
Vile fine di un approccio ostile.
Fermenti sfilacciati non hanno requie,
candelabri spenti i tuoi ammanchi di vita.
DISINCANTO
I tuoi occhi sfiatati,
e filari d’argento a incorniciare
l’impossibile risvolto anelato.
Sfoghi soppressi e addobbati consensi
interrogano il tuo cuore.
Derise e madide movenze
mentono.
Camuffati, nudi rami ti attraversano,
e sorridi.
Parvenze dorate di fori insanati.
Grezzi bisbiglii, impotenti,
annoverano della tua vita fluidi corsi impediti
da insormontabili onde.
E preghi, piangi, soffri, ami,
unguenti zuppi di pietà non leniscono
le incandescenti acque avviluppanti ogni tua fibra.
L'appuntamento di Bologna del 12 aprile, cui avevo accennato qui e qui, si avvicina, con qualche dubbio, ad esempio di Matteo Fantuzzi che sul blog di Atelier si domanda, forse con eccessivo pessimismo, "andremo a Bologna a far cosa?" (v. qui), e teme "se alla fine tutto è rimasto uguale, se non siamo riusciti a fare sì che la Poesia abbia trovato mezzi nuovi per andare in giro, per facilitare la sua fruizione, per renderla economicamente possibile, tecnicamente veloce, ecco che alla fine il fallimento è dietro l’angolo"; e con qualche certezza, come in uno degli altri organizzatori della manifestazione, Alessandro Ansuini, che oltre a definire la "cosa" in maniera non equivocabile, Laboratorio Internazionale Poesia Sperimentale (ma forse questo termine qualche equivoco lo produrrà), ha predisposto un spazio/blog apposito (v. qui) che si presume dovrebbe essere, poi, il nucleo di una rete informativa e di condivisione delle esperienze "per tutte quelle realtà che operano sia all’interno che all’esterno dell’ufficialità poetica, espressiva, creativa". Sarà interessante seguire gli sviluppi di questo ambizioso progetto. Per quanto mi riguarda questo blog è disponibile a contribuire, per quanto possibile, alla diffusione del dibattito e/o dei materiali.
Un'amica mi chiedeva tempo fa dove trovare video o audio in cui Allen Ginsberg leggesse suoi lavori. E' vero, è una faticaccia trovare qualcosa in rete o almeno bisogna saperlo fare. Comunque, ecco intanto un brano in cui Ginsberg, forse come prezzo della celebrità, lamenta l'invasione telefonica della sua vita privata (e i cellulari non esistevano ancora). Il suo rapporto con il telefono era, come per tutti, contraddittorio, tuttavia bisogna ricordare che, in una rivisitazione tardo romantica della morte annunciata così cara ai buddisti, Ginsberg passò le ultime ore prima di entrare in coma e morire chiamando al telefono gli amici per salutarli o scusarsi o farsi perdonare di qualcosa. Da notare qui che in questa lettura il poeta non "poeteggia" nè recita con particolare enfasi, come se la poesia non dovesse avere altri ornamenti che le sue proprie parole, "as it is", così com'è.
I AM A VICTIM OF TELEPHONE
When I lay down to sleep dream Wishing Well it rings
"Have you a new play for the brokendown theater?"
When I write in my notebook poem it rings
"Buster Keaton in under the brooklyn bridge on Frankfurt and Pearl..."
When I unsheath my skin extend my cock toward someone's thighs fat or thin, boy or girl
Tingaling - "Please get him out of jail... the police are crashing down"
When I lift the soupspoon to my lips, the phone on the floor begins purring
"Hello it's me - I'm in the park two broads from Iowa... nowhere to sleep last night... hit 'em in the mouth"
When I muse at smoke crawling over the roof outside my street window
purifying Eternity with my eye observation of grey vaporous columns in the sky
ring ring "Hello this is Esquire be a dear and finish your political commitment manifesto"
When I listen to radio presidents roaring on the convention floor
the phone also chimes in "Rush up to Harlem with us and see the riots"
Always the telephone linked to all the hearts of the world beating at once
crying my husbands gone my boyfriend's busted forever my poetry was rejected
won't you come over for money and please won't you write me a piece of bullshit
How are you dear can you come to Easthampton we're all here bathing in the ocean we're all so lonely
and I lay back on my pallet contemplating $ 50 phone bill,
broke, drowsy, anxious, my heart fearful of the fingers dialing, the deaths, the singing of telephone bells
ringing at dawn ringing all afternoon ringing up midnight ringing now forever.
La storia della modernità (come qualsiasi altra, se è per questo) si può raccontare in più di un modo.
Parlando di Aglaura, una delle città stravaganti eppure misteriosamente familiari descritte ne Le città invisibili, il Marco Polo di Italo Calvino diceva di riuscire a stento ad andare «oltre le cose che gli abitanti della città ripetono da sempre», malgrado i loro racconti discordassero da quanto egli stesso era persuaso di vedere. «Vorresti dire cos’è, ma tutto quello che s’è detto di Aglaura finora imprigiona le parole e ti obbliga a ridire anziché a dire». E così, saldamente installati tra le mura cittadine fatte delle storie sempre ripetute, alla maniera in cui i bastioni di certe città sono fatti di pietre, gli aglauriani abitano «un’Aglaura che cresce solo sul nome Aglaura e non si accorgono dell’Aglaura che cresce in terra». Come potrebbero comportarsi diversamente, infatti? Dopotutto, «la città che dicono ha molto di quel che ci vuole per esistere, mentre la città che esiste al suo posto, esiste meno».
Gli abitanti di Leonia, un’altra delle Città invisibili di Calvino, direbbero, se interrogati, che la loro passione è «il godere delle cose nuove diverse». In effetti, ogni mattina la popolazione di Leonia «indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello d’apparecchio». Ogni mattina, però, «i resti della Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio», e uno straniero come Marco Polo, guardando per così dire attraverso le crepe dei racconti che cingono Leonia, si chiederebbe se la vera passione dei leoniani non sia invece «l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità». Altrimenti perché i netturbini sarebbero «accolti come angeli», sebbene il loro compito sia «circondato d’un rispettoso silenzio» e, comprensibilmente, «una volta buttata via la roba nessuno [voglia] più averci da pensare»? A mano a mano che i leoniani si distinguono nella loro ricerca delle novità, «una fortezza di rimasugli indistruttibili» circonda la città, «la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne».
Un secolo fa veniva pubblicata, a distanza di un anno dalla prima, la seconda parte delle Neue Gedichte (Nuove Poesie) di Rainer Maria Rilke, da cui sono tratti i due testi qui trascritti, nella traduzione di Giacomo Cacciapaglia. "Ciò che accumuna le Nuove Poesie, distinguendole dalle raccolte simultanee e successive, è la poetica dell'oggetto; vale a dire una poetica orientata verso la rivelazione delle cose (oggetti inanimati, animali o esseri umani) sottratte alla invadenza ed effusività dell'io, brulicanti di individualità, che si aprono a ventaglio nel mondo esterno, tenute insieme soltanto da un principio formale e prospettico, non da un tema o da una tendenza. (..) Da questa conversione dell'io in cosa, da questa estroversione in cui culmina l'esercizio del vedere, nasce l'opera che modella la cosa ormai emancipata dall'artefice e non più appartenente a nessuno; entrata in quela inappartenenza feconda che è il segno felice della sua necessità, autentica perchè rivelata da uno sguardo esatto. E' quasi una parola d'ordine" (dall'introduzione di G. Cacciapaglia). Una presa di distanza dall'ispirazione dimostrata anche dal fatto che questi testi sono stati scritti mesi o anni più tardi e in altro luogo, a Parigi nell'estate del 1908.
(nell'illustrazione: Palazzo Contarini, Claude Monet, 1908)
Il mio post "Scapucci, chi era costui?" (v. qui), nel quale presentavo qualche poesia di uno sconosciuto poeta di Binasco che aveva pubblicato in pratica un solo libro e che era stato presente nell'Almanacco dello Specchio del 1979 con una breve presentazione di Giuseppe Pontiggia, ha ora un seguito, un blog (Scapucci Samizdat) tutto dedicato alle poesie di Giuseppe Scapucci, organizzato da amici e estimatori, in cui in pratica viene ripubblicata tutta l'opera del poeta. Vale la pena di darci un'occhiata...
Il progetto "Fine attività (damnatio memoriae)" di Enrico Cerquiglini, di cui avevo già pubblicato qualche testo qui, ha trovato una sua versione (forse) definitiva a stampa su Lulu.com (qui). La formula dubitativa è d'obbligo, conoscendo l'anima inquieta di Enrico e la materia poetica che essa gli detta, a cui lui cerca di dare una forma poeticamente razionale proprio mentre la ragione, anche ben desta, genera (e svela) mostri...