Venerdì, 20 luglio 2007
Mi prendo qualche giorno di otium, làssu su le montagne, tra boschi e valli d'or, ove la montanara oè si sente cantare. Se tutto va bene e a Dio piacendo, ci risentiamo alla fine del mese. Nel frattempo potete continuare a visitare il blog utilizzando il motore di ricerca interno o l'archivio generale (i links sono qui a destra). Fate come se foste a casa vostra. Un abbraccio a tutti.
Rileggere (parlo sempre da lettore) porta sempre ad affinare le proprie conclusioni, se si ha un minimo di onestà intellettuale. Questo è tanto più vero e necessario quando si ha a che fare con un autore giovane e cioè uno che si pensa abbia più tempo per maturare, cambiare, evolversi. O almeno questo è vero nel caso di Jacopo Bosio, di cui avevo già presentato dei testi qui. Non so che cosa sia successo, ma qualcosa è cambiato. Le nuove poesie, pur attingendo ancora a una matrice biografica fortemente identitaria, non sono più, per così dire, di genere, ma rappresentano di più qualcosa che appartiene (o può appartenere) a un sentimento della vita più universale (v. "Non c'ero agli appuntamenti"). E poi una poesia molto meno, come dicevo allora, di pulsione o spontaneista, anzi si nota qui un maggiore controllo del dettato, più consapevolezza lessicale e metaforica, la perdità di quella naiveté (ma forse anche di una certa innocenza) che mi sembrava di aver intravisto, a torto o a ragione. Si paga uno scotto alla maturazione? Forse sì, ma io sono sempre stato un convinto assertore del "controllo" dell'autore sulla propria ispirazione, non credo nella poesia a briglia sciolta. L'importante è che rimangano le domande, il dubbio, la materia poetica. E qui ne vale la pena. Nella ulteriore selezione di quanto Jacopo mi ha mandato emergono testi di stoffa notevole, come quello citato sopra o "Le ballerine del corso avanzato", insieme economici ed efficaci, senza ridondanze o autocompiacimenti, con più cultura poetica (si riconoscono buoni echi del primo novecento) e non poche raffinatezze stilistiche. Per citare una delle poesie pubblicate la volta scorsa, "la poesia non era facile", ma "invecchiando ha preso forma / ha cambiato il suo corpo".
Continua a leggere "Jacopo Bosio - Non c'ero agli appuntamenti"
Lunedì, 16 luglio 2007
Ancora un poeta dell'Est, sempre per la cura dell'amico Lorenzo Pompeo, ripreso dalle vecchie pagine del defunto sito "I Fogli nel cassetto", su cui facevo l'editor del settore poesia. Gli altri poeti fin qui pubblicati sono reperibili qui e qui
NOTA SULL'AUTORE di Lorenzo Pompeo
Miron Bialoszewski, nato a Varsavia nel 1922 e morto nel 1983, poeta, drammaturgo e autore di prose, era un emarginato eccentrico che visse nella più completa povertà. Inizialmente mise in scena i suoi drammi assurdi in un appartamento privato insieme ad alcuni amici e nel '56 fu in grado di pubblicare la prima raccolta delle sue poesie, "Obroty rzeczy" ("Attitudini delle cose"), che provocò reazioni contrastanti. Solo dopo il '56 , grazie ai cambiamenti politici avvenuti in Polonia e in tutta l'Europa orientale, nella poesia polacca si poté affermare un indirizzo sperimentale. Come reazione alla retorica del realismo socialista, la poesia abbandonò ogni intento didattico. Al contrario, sotto l'influsso dell'esistenzialismo, i poeti e gli scrittori spesso si servirono in questo periodo di metafore grottesche e del nonsenso.
La poesia di Miron Bialoszewski è una specie di canto sugli oggetti, su qualunque cosa ci circondi nella realtà, purché sia concreta e si possa toccare con le mani, quasi l'autore voglia così beffare l'insidiosa astrattezza del "realismo" ufficiale.
Continua a leggere "Poeti dall'Est 3 - Miron Bialoszewski"
Martedì, 10 luglio 2007
Francesco De Girolamo mi manda un'altra poesia, che pubblico volentieri. Non è, francamente, una delle sue migliori, ma questa è una opinione del tutto personale. E' però interessante per almeno due ragioni: la prima è che la normalità rimanda alla norma. E se è vero che la norma è la media di quanto accettato in una data comunità (nell'ambito ad esempio delle scienze linguistiche) allora è vero che la norma è diventata quella insensibilità dell'uomo moderno nei confronti del tragico di cui parla il testo, e quindi Francesco fa bene a denunciarla poeticamente (ma per fortuna la norma nasconde sempre un'opzione per altre possibilità). L'altra cosa è che questo testo può essere letto in chiave metapoetica, l'arso pianto che non scorga è forse l'ipirazione che brucia sè stessa, di fronte all'indicibile (che diventa impercettibile) del tragico, e anche la lingua depone le armi. E' un problema che certo non riguarda solo Francesco, ma qui allora la normalità assume l'accezione anche politica di "normalizzazione", in questo caso della poesia. Sarebbe un suicidio.
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Giovedì, 5 luglio 2007
Bisogna ad un certo punto buttarsi dietro alle spalle certe domande oziose del tipo: di che cosa parla la poesia? e come ne parla?, tralasciando ovviamente a maggior ragione il perchè. Bisogna procedere a quella che qualcuno, anche di recente, ha chiamato "una presa d'atto": - da parte del lettore, che la poesia supera e trascende le sue proprie norme, vere o presunte che siano, e si dispone ad indagare territori che possono anche stare in certe zone di confine tra i generi; - da parte dell'autore, che questi territori possono essere molteplici e diversificati (l'assunzione di consapevolezza di cui parla Cristina Babino nella prefazione al libro) e che comunque necessitano di chiavi di lettura specifiche e appunto un pò fuori norma (dice D'Urso: "ho cercato lo stile e le assonanze, / ho trovato un cane abbandonato per le ferie"). "Occidente express", presente qui con testi inediti in rete, è anche questo.
La poesia di D'Urso può essere iscritta tra quelle del "disincanto", se proprio si vuole. Mentre l'Oriente Express andava nella direzione del mito e della fantasia, l'Occidente Express di Andrea va a velocità folle nel senso della dissoluzione del mito (e quindi della speranza), e se c'è un ignoto in fondo a questa corsa, esso riguarda solo "quando" questo metaforico treno (o autobus, o metro) deraglierà. D'Urso ha scelto la sua parte di realtà da descrivere, quella familiare e tuttavia inquietante di un esterno urbano quotidianamente percorso, un non luogo che solo un pò di toponomastica differenzia da mille altre grandi città. Qui si svolge il flusso ininterrotto, un "rude stream" che però ha molto poco di eroico, di un'umanità disparata di "comparse" che non fa più nemmeno massa, o classe, o cultura, perchè semplicemente vive un ciclo dentro/fuori che non è nemmeno più di ricostituzione della forza lavoro, ma di consunzione o riduzione al minimo dei bisogni (leggasi qui "Marx ti aiuta lo sai..."). In questo poema picaresco ad episodi (di cui il poeta stesso è un personaggio), fatto di occasioni ma per niente minimale, D'Urso si aggira e annota, usando spesso un'ironia tagliente che produce forse aforismi, come dice Babino, ma raggiunge anche epifanie, piccole rivelazioni, come quella di capire che "nella vita non serve un senso, ma un movente". Ecco, è questa realtà (tanto magmatica quanto fredda, appunto disincantata, per la quale giustamente si rinuncia ad adottare una forma, ma si canta "as it is", così com'è) a suggerire lo stile, la norma: impossibile innestare su questa materia il linguaggio poetico connotativo e polisemico più tradizionale, la necessità è di descrivere, "raccontare" senza tanti fronzoli o soggezioni al verso, a volte magari con qualche ridondanza o qualche piccola ricerca d'effetto, a volta con interessanti soluzioni narrative, costruendo grandi metafore per accumulazione, raggiungendo il lettore senza mediazioni. Poichè questa realtà a cui poter applicare una propria griglia di riferimento è potenzialmente infinita, per uno meno coinvolto il rischio semmai potrebbe essere di fare antropologia, o un'osservazione entomologica con poca pietas. Ma non è il caso di Andrea D'Urso.
da "Occidente express"
Domenica, 1 luglio 2007
A gentile richiesta (come si diceva quando suonavo nelle balere, secoli fa), un'altra poesia su Via delle Belle Donne, il blog di Antonella Pizzo & C.,a questo link.
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