Venerdì, 29 dicembre 2006
Quattro poesie di Enrico Pietrangeli, romano, inviatemi da Francesco De Girolamo. Quattro poesie decontestualizzate, come quelle che mi fece avere Francesco (v. post qui sotto), e disperse nel tempo. Come tali da leggere come se si aprisse un livre de chevet, la sera prima di andare a letto, cercando di farsi un'idea dell'autore partendo dalla pura lettura. Non è un problema in realtà, perchè c'è un'abitudine diffusa a fare questo: siamo nella assoluta normalità della stragrande maggioranza della poesia italiana, che è per lo più definibile come "rapsodica". In altri termini, una poesia che coagula momenti o, per dirla con Montale, "occasioni", porzioni di vissuto che il poeta comunica al lettore, raramente approdando a una struttura complessa che abbia bisogno di un inizio e una fine della lettura. E' per questo che è possibile leggere una poesia come "A M.C. II° parte" (con il suo passo lungo, la sua ironia, la sua aria ispirata) senza conoscere un'ipotetica "prima parte" (che in realtà esiste). E' bene chiarire che non c'è nessuna valenza negativa nel termine "rapsodico", è la semplice constatazione di uno dei caratteri della poesia italiana, come, ad esempio, l'amato/odiato "io lirico". E' evidente quanto spazio ci sia, in questo carattere frammentario, per una forte presenza lirica: la prima persona, qui, è presente dappertutto (ed è perfino pleonastico segnalarlo), in varianti diverse. Il punto è semmai del suo utilizzo, quale materia poetica si gestisca con questo essere presente. Nel caso di Pietrangeli si tratta, citando proprio De Girolamo, di "un vissuto denso ed emblematico" non emotivo, ma neanche, direi io, mimetico, tanto è vero che il linguaggio scelto è quello di tutti i giorni, immediatamente comunicativo,senza fronzoli nè nessuno dei particolari marchingegni poetici, che restituisce un forte senso di autenticità, di esperienza "non per sentito dire", come nel "Ricordo di Ungaretti" (chi ha come me qualche anno se lo ricorda bene, e con nostalgia). C'è insomma un linguaggio impiantato nella realtà e scelto per un livello paritario di comunicazione con il lettore. Certo il meglio di sè, per lo meno dal mio punto di vista, Pietrangeli lo dà sul versante dell'esperienza più strettamente privata, legata al corpo e ad un sentimento laico del corpo, del sesso "privo di grazia alcuna" (ma liberatorio - e un pò anni '70 -), della materia in genere, una sublimata concretezza. Anche quando parla del tempo, in termini moderatamente metaforici, Pietrangeli "materializza": il tempo sbatte in faccia, lubrifica porte, fa stridere, frantuma, infine si concretizza in incrostazioni di polvere. Anche l'anima, quando sembra librarsi in qualche modo, ha bisogno di odori/memoria, e saranno gli odori a rivoltarla come un aratro. Si percepisce al fondo di questa poesia una cultura anche complessa, a volte vagamente nostalgica. Ma sopratutto, meritoriamente, c'è direi un'assenza del postmoderno, senza nessun ammiccamento, nessun riuso di luoghi comuni, nessuna finzione. Naturalmente queste sono scarne osservazioni sui testi qui presenti, per quello che possono rappresentare l'autore. Pietrangeli ha ben altre caratteristiche e altri registri, come è possibile riscontrare leggendo la sua raccolta "Di amore, di morte", reperibile in rete.
Enrico Pietrangeli, autore della raccolta di poesie "Di amore, di morte", pubblicata in versione cartacea (Teseo editore 2000) ed in elettronica (Kult Virtual Press 2002), collabora con riviste e siti internet pubblicando articoli e racconti brevi. Attraverso la traduzione poetica, si è dedicato all'opera di alcuni autori poco conosciuti. Redattore di Tam Tam, gestisce il sito "Poesia, scrittura e immagine" [www.diamoredimorte.too.it] e, recentemente, ha pubblicato il suo primo romanzo "In un tempo andato con biglietto di ritorno" (Proposte editoriali 2005)
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Venerdì, 22 dicembre 2006
Bene, siamo a Natale. Come dice Benigni, Gesu' dovrebbe essere contento perche' non ci siamo mai dimenticati un suo compleanno, non abbiamo mai saltato un anno. Solo che, aggiungo, i regali quasi sempre ce li siamo fatti per noi. Ogni tanto a qualcuno viene il sospetto che il Natale non sia solo una festa, un'occasione per rimpinzarsi di dolci, una pazzia commerciale collettiva, o il momento giusto per una settimana bianca. Forse e' anche un momento di riflessione, forse e' davvero la ricorrenza di un evento eccezionale. C'e' chi ci crede, c'e' chi non ci crede e c'e' chi vorrebbe crederci, con tutto il cuore. Comunque la pensiate, abbiate un buon Natale e un poetico anno nuovo.
Jacques Brel - Dite, se fosse vero (trad. G.Cerrai)
Dite, se fosse vero se fosse nato a Betlemme davvero, dentro una stalla dite, se fosse vero se i Re Magi fossero davvero venuti da lontano, lontanissimo per portargli oro, mirra, incenso dite, se fosse vero tutto quello che hanno scritto Luca, Matteo e quegli altri due, dite, se fosse vero se fosse vero il colpo delle Nozze di Cana e quell'altro di Lazzaro dite, se fosse vero se fosse vero cio' che raccontano i bambini prima di andare a dormire la sera lo sapete, quando dicono Padre Nostro e Madre Nostra se fosse vero tutto questo io direi si' oh, di certo direi si' perche' tutto questo e' talmente bello quando si crede che e' vero.
Lunedì, 18 dicembre 2006
Nell'affrontare la lettura dei testi di Alivento, alcuni dei quali pubblicati qui, dobbiamo rinunciare a qualsiasi dato di tipo biografico o culturale, per via della sua impenetrabile riservatezza. Non sappiamo niente di lei, tranne che scrive poesie, la maggior parte delle quali reperibili sul suo blog Mar'ombra (marombra.blogspot.com). Non e' detto che sia uno svantaggio. Basta forse (partendo dalla consapevolezza che e' impossibile non comunicare) accettare il tipo di rapporto comunicativo che lei stessa ci impone, che non e' solo questa scelta "privata" (io sono quello che scrivo), ma deriva anche, leggendo, da una sorta di "preminenza" della scrittura nei confronti del lettore, implicito, ideale o reale che sia. Un prima lettura di superficie ci restituisce infatti l'impressione di una poesia esistenziale, una riflessione scritta che in parte esclude un ipotetico uditorio, anche se, e' interessante notarlo, questi testi (non tutti) sembrano scritti apposta per essere recitati, come vedremo piu' avanti. Il materiale poetico prende sempre le mosse da un io presente,che l'oggetto della riflessione sia il rapporto interpersonale o l'amore o che sia uno sguardo sull'ambiente circostante o sul farsi stesso della poesia. In ogni caso pero' l'esperienza e' sempre calata in uno scenario freddo e distante, addirittura chimico o minerale. Sono fittissimi i riferimenti in questo senso: latta, squame, piombo, gomma, idrogeno, antracite, atomo, azoto, cemento, ferro, ossigeno, mercurio; termini scelti, credo, non solo per il loro significato immediato, ma anche sopratutto per quello secondario di icona drammatica e dura e di elemento fonico. In questo mondo percepito si svolgono i fatti poetici, costituiti essenzialmente da tentativi di accostare una realta' a volte difficile da interpretare, a volte apparentemente abitabile, come nella poesia "Quando piove", dove c'e' l'aria leggera degli ottonari a descrivere un quadro naturalistico che ha pero' qualche motivo di inquietudine ("una donna sull'uscio / rammenda cose fosche / di tempesta a punti fitti fitti"). Se il mezzo principe per interpretare la realta' e' per tutti noi il linguaggio, per Alivento esso e' anche, in maniera forte, significante in se', elemento pittorico, fonico, ritmico, proprio nel momento in cui la parola sembra venir meno. La poesia "Idro", una delle migliori di questa piccola silloge, e' in questo senso emblematica: se esordisce con la constatazione di un possibile fallimento ("Penso che ogni tanto la parola / perda i sensi..."), parte proprio da questa perdita di senso per dimostrare un'altrettanto possibile rivincita attraverso il suo riuso. E lo fa con grande maestria, utilizzando la lingua, ad esempio, nelle sue componenti foniche, fino al livello del singolo fonema. Basta leggerla per rendersene conto: "...perda i senSI / SI Sfinisca di Suonare / il proprio oScuro Suono / SVEnga di VErgogna...". Oppure in "Mutante": "...deRaglieRanno i tReni e la Ruggine / RaschieRa' le scoRte di feRRo dai vagoni". Altrove, come in "Libera di senza" e' il gioco delle assonanze e dei rimandi semantici a dare il passo, il senso, il ritmo: "Altro si confonde dentro / e gli occhi vanno in vago / giro tristi e sento in vitro / vuoto peso involto tetro...". E' questo uno dei motivi per cui parlavo di vocalita', di recitabilita' di queste poesie, insieme, se vogliamo, all'assenza di punteggiatura che libera il verso in infiniti enjambements e legature a piacere. Certo a volte Alivento indulge al gioco che rischia, se non controllato, di travalicare dai suoni ad associazioni non sempre funzionali al discorso, segnando in qualche modo una discontinuita' stilistica, come in "Asindeto", ma questo e' il male minore in una poesia densa ma comunicativa, potenzialmente in evoluzione, sopratutto sulle tematiche meno private, a partire da quella che a me sembra preminente, cioe' della collocazione ("questo nostro essere / stretti / sempre piu' rarefatti"); dell'identita' del poeta ("interrogare / dove sia il mio io / il mio cartello il mio dio") e dell'identita' della parola e del suo senso, come abbiamo gia' visto, in questo mondo dove forse "vivere e' lo stesso / di aspettare al molo l'infinito / una nave che non ha risposte". Che poi e' una delle possibili ragioni d'essere della poesia. (g.c.)
I TESTI
Lunedì, 11 dicembre 2006
Torno ancora su Marina Pizzi, che non e' certo una mia scoperta dato che ha un curriculum di tutto rispetto, ma a cui con molto piacere ho dedicato alcune righe su questo blog in due occasioni, quando ho pubblicato estratti dai suoi lavori "La giostra della lingua il suolo d'algebra" e "L'acciuga della sera i fuochi della tara". Proprio quest'ultima raccolta ha trovato ora la sua stesura definitiva e la pubblicazione presso Luca Pensa Editore. Sul libro e' intervenuto Marco Giovenale sul Manifesto del 1 dicembre con una breve recensione. Per quanto mi riguarda in questa occasione non posso che ribadire quanto ho scritto sul blog (v. qui e qui), aggiungendo semmai, sulla scorta di quanto ho gia' letto, alcune mie ulteriori impressioni. La poesia di Marina Pizzi non fa nessuna concessione al lettore, la sua scrittura e' ego-centrata e in quanto tale e' pura rappresentazione del mondo (o della sua non riproducibilita') cosi' come lo vede l'autrice. Sul dramma del mondo si innesta e ne e' specchio la scrittura, la rappresentazione verbale di esso, il suo disfacimento e la sua ricostruzione in un diverso significato, una diversa realta'. Ne consegue un differente canone comunicativo e una diversa capacita' di comprendere, come in un linguaggio oracolare. Da questo punto di vista la poesia di Pizzi pretende uno sforzo supplementare da parte del lettore, una specie di immersione nei propri riferimenti culturali, nel proprio bagaglio semantico, perfino nella propria psiche. E' una specie di viaggio esoterico, di riconquista di codici. Ci si domanda, ad esempio, che cosa significhi "triciclo di cielo / da non pregare". E' il tre la chiave, e' per caso una surreale trinita' celeste quella che non dobbiamo piu' pregare? A cosa rimandano le assonanze, le consonanze, gli anagrammi, le paronomasie? Forse a un livello inconscio della lingua, a un sogno, a un gioco linguistico infantile? E l'ambiguita' semantica di parole reiterate (privata = propria; privata = mancante) o collegate da isotopie ("Le santita' delle nuvole cosi' di buona condotta", ove "condotta" puo' avere valore di movimento o di comportamento, se collegato o meno a "santita'")?. Sono solo esempi, naturalmente. Il fatto vero e' che la lettura (o la plurilettura, come dicevo) dei testi di Marina, dopo aver preso atto di una sorta di prevaricazione, che gia' segnalavo, nei confronti del lettore a cui e' lasciata "l'onesta' del libro esploso e speso e disseminato in allegorie, immagini inattese, eco fra verbi" (Giovenale), e' una eccellente esperienza, a volte conflittuale forse, ma densa, suscettibile di riscoperte continue, e come tale di straordinaria persistenza.
Nota: La recensione di M.Giovenale è reperibile qui
Martedì, 5 dicembre 2006
Leggo sul Corriere della sera del 2 dicembre un trafiletto di M.Persivale intitolato "Il tramonto del congiuntivo". Che il congiuntivo se la passasse male si sapeva da tempo, soppiantato da forme verbali piu' semplici ricalcate a volte dall'inglese, sostituito da un indicativo appiattito e privo di sfumature, espulso a calci anche dai telegiornali. Fin qui, in un certo senso, niente di strano: le lingue sono organismi viventi, soggetti ad una loro evoluzione, un loro uso e riuso, una loro consunzione. Quello che registra l'articolo e' pero' la notizia che "lo sfortunato modo verbale e' stato relegato, nei libri d'italiano per stranieri, tra le sezioni di studio avanzate; quelle che, in pratica, non servono a chi voglia ottenere un diploma di conoscenza intermedia della lingua". Allo stesso modo, puo' capitare di frequentare le scuole di italiano per molto tempo "prima di incappare nello studio dell'insidioso congiuntivo", con il risultato che quasi tutti rinunciano a impararlo. C'e' quindi non una evoluzione, ma una dismissione a priori del congiuntivo, una abrogazione statutaria, una specie di pulizia etnica linguistica. Naturalmente si puo' vivere senza congiuntivo, e puo' darsi che "Non chiederci la parola" di Montale funzioni bene lo stesso senza di esso, ma quello che dovremmo chiederci e': quali sono i limiti di questo riduzionismo o minimalismo linguistico, sopratutto dal punto di vista dell'espressione artistica? E' indubbio che si possa fare arte, poesia nel nostro caso, anche riducendo la gamma delle possibilita' linguistiche a disposizione, eliminando per esempio i cosiddetti connettivi, come hanno ampiamente dimostrato le avanguardie. Ma si tratta pur sempre di una scelta, come quella di un pittore che decide di usare solo il bianco e il nero (Manzoni, Burri, ecc.), una scelta magari "ideologica" o concettuale, ma non obbligata dalla progressiva riduzione dei mezzi, della tavolozza, dei significanti. Allo stesso modo un poeta puo' coscientemente decidere di utilizzare il madrigale o la computergrafica, e, se scrive, di fare una poesia con soli periodi ipotetici o verbi soltanto all'infinito, oppure ricorrere in maniera metalinguistica al riuso di termini arcaici. Da qui deriva una specie di responsabilita' nel confronti della lingua, almeno da parte di chi la usa per fare arte, una responsabilita' per cosi' dire conservativa, non conservatrice ne' formale, direi piuttosto pluralistica e tollerante, orientata alla gamma, al ventaglio delle possibilita'.
Insomma, mi dispiace per il povero congiuntivo, cerchiamo di fare qualcosa per lui, tanto piu' che esso "e' il modo della possibilita', del desiderio e del timore, dell'opinione soggettiva o del dubbio, del verosimile o dell'irreale, viene usato generalmente in proposizioni dipendenti da verbi che esprimono incertezza, giudizio personale, partecipazione affettiva" (M.Dardano - P.Trifone, Grammatica Italiana, Zanichelli). Una descrizione, mi sembra, che molti poeti, magari sostituendo "modo" con "mondo", potrebbero sottoscrivere come una delle possibili definizioni della poesia. (g.c.)
Sabato, 2 dicembre 2006
Intanto che lavoro ad altre cose, pubblico qualcosa di mio...La poesia non e' solo tristezza, angoscia, crisi esistenziale. A volte e' anche una semplice felicita', la consapevolezza di esistere in un dato momento, qualcosa che si cerca di esprimere in maniera altrettanto semplice, anche linguisticamente. Una felicita', o serenita', in cui l'uomo e' addirittura marginale o un semplice comprimario, e le cose, per qualche misteriosa grazia, sembrano accadere da se'...
OSTERIA DI COLLINA
la brezza marina che da molte miglia prende la valle e il sole che or ora e' tramontato nel carminio... Qui si sosta. Si spengono i motori, l'aria risommerge il verde oggettivo, l'oggettiva selezione degli aromi. Ci si appoggia al silenzio per un po', viandanti al bordone. I grilli riprendono - c'e' una vibrazione, come d'un'arpa cosmica, nel vento. Qualcuno sta officiando. Ora gesticola un bicchiere, sotto il pergolato, alzato rosso. Il pane, nell'intensita' della notte, stralunatico e bianco. Nessuno china la testa. Si ride in comunione. E quella religione rilega le cose e gli uomini e il mondo stasera regalato cosi' senza preghiera.
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