Venerdì, 24 novembre 2006
Affronto la lettura dei testi che mi ha inviato Francesco con qualche patema d'animo. Perche' non e' semplice capire da poche poesie la personalita' di un autore e tuttavia viene il dubbio che gia' questa scelta voglia dire qualcosa, voglia da una parte essere emblematica di una produzione ben definita nel tempo, dall'altra voglia mantenere una riservatezza di fondo sul fare e sul pensare, come concedendosi poco per timidezza.
Ci si accosta a questi testi per un'apparente via facile, attraverso porte aperte che conducono a forme familiari e tranquillizzanti, a tutto un repertorio di figure e strumenti poetici che danno a queste poesie l'andatura regolare e ritmata di una partitura. Fitta la presenza di endecasillabi, con ricordi addirittura petrarcheschi o leopardiani ("io abito un abisso umido e vivo / e buio e caldo e alto e senza fine"); costante la percussione delle rime, vere (sento, vento; armate, disperate), false (mano, parlano), interne (inverso, universo) e delle assonanze, anche concatenate, e fitte (moto, vuoto, fuoco); evidente l'uso di forme retoriche collaudate come il polisindeto o la bella sinestesia di "Mentite spoglie" ("vedo i tuoi occhi chiusi che non parlano / e sento che le tue labbra non vedono"). Potremmo continuare, indicando ad esempio l'uso abile delle quartine o l'altrettanto abile spiazzante iperestensione del verso, ma il gioco tutto sommato e' facile e non faremmo altro che sottolineare la cultura poetica dell'autore. Il punto e' un altro, ed e' legato proprio a questa "familiarita'" in cui Francesco abilmente ci trascina. Si cede cosi' alla tentazione di leggere d'un fiato, di godere della musica e del ritmo, illudendoci, come accade spesso oggi in questa epoca incolta, che la musica ci sia dovuta. Ma questa porta aperta della forma nasconde una nassa, un'insidia: come pesci incauti arriviamo in fondo e ci rendiamo conto che questa poesia, come tutta la vera poesia, non ci chiede altro che di essere riletta con amore, compresa affettuosamente, ci chiede insomma quella empatia di cui solo il lettore di poesia e' capace, prima di poterci congedare. Poiche' oggi la forma chiusa o almeno codificata non e' piu' solamente una scelta stilistica, un canone o una prova di bravura. Ma e' anche una scelta ideologica, un richiamo alle radici, un utensile metapoetico, un significante (ma.naturalmente Francesco ha avuto la maestria, in testi qui non presenti, di esprimersi in altre forme, come il verso libero, pur con richiami sempre presenti alla tradizione). E' anche una metafora. Un hortus conclusus, un fuori/dentro che a volte impedisce di carpire il segreto dei frutti, a volte protegge chi coltiva. E protegge forse (anche con il ricorso a simboli) il nucleo di intimita' profonda che si scorge in queste poesie, che vuole dirsi ma non vuole darsi, cioe' svelarsi a pieno, sia esso (ipotizzo) nel rinvenirsi esposto, "doppio", umanamente contraddittorio e indifeso, posseduto di fronte al sentimento amoroso ("Mentite spoglie"); sia nel descriversi (tutto d'un fiato, in un unico periodo, si noti, che rende bene l'idea del gorgo) alla lacerante dolorosa ricerca di un nuovo senso che ponga fine al caos esistenziale ("Inverso"); oppure nel ripercorrere il mutare (forse) dei sentimenti e la disillusione dell'ideale (anche metaforicamente dura) attraverso il vocativo reiterato di "Sangue di pietra"; o infine (ma in maniera ancora piu' chiusa nella forma, connotata simbolicamente e con un dettato direi ermetico) nel dipingere il divenire (dei sensi, dell'amore, della vita?) in "Vaghi sorrisi", il testo direi di piu' ardua lettura. Poesia densa, quindi, riservata, esigente, raffinata e colta, sotto alcuni aspetti problematica da un punto di vista critico, ma capace di dare a un lettore non frettoloso, meditativo, simpatetico, una esperienza poetica di grande soddisfazione.
Continua a leggere "Francesco De Girolamo - Quattro poesie"
Martedì, 21 novembre 2006
L'ottimo Roberto Ceccarini, aka Redmaltese, continua sul suo blog l'interessante esperimento di jukebox poetico, testi di vari autori, corredati da files audio con la voce di attori o degli autori stessi, come Anedda, Guglielmin, Fabbri e alcuni "storici" come Pavese, Majorino, Pozzi, Erba. Tra i quali, per la gentilezza di Roberto, ora figuro anch'io. Potete leggere e ascoltare qui, se volete.
Non sarebbe impropro definire questa iniziativa di Ceccarini come un reading telematico, con un pubblico invisibile ma ancora piu' attivo di quello reale, se appena ha la compiacenza di lasciare un commento che sia qualcosa di piu' di un applauso o un fischio. Qui, come altrove, anche sulla pagina scritta, la poesia e' mutevole, una delle sue mille caratteristiche. Non e' mai uguale a se' stessa, neanche per lo stesso autore. Ogni volta che leggo una mia poesia, devo respingere la tentazione di cambiare qualcosa, magari una virgola (non marginale, con quello che significa in termini di ritmo), e comunque mi ritrovo a "pensarla", a recitarla con la mia voce interna, ogni volta in una maniera diversa. Penso succeda a tutti. E se succede a me, di vivere questa perplessita', immagino quale sia quella di un interprete dotato di sensibilita' testuale, che deve capire che diavolo intendeva l'autore, se c'e' dell'ironia nascosta, se un enjambement pretende uno "staccato" o una legatura e cosi' via. Bene, registrando la mia voce avevo gli stessi dubbi, tanto da credere quasi nel mito romantico della poesia dotata di vita propria. Ma piu' probabilmente era il respiro, anch'esso mai uguale a se' stesso, oppure, altra ragione assai plausibile, un tot di vanita' messa in questo nuovo modo di "pubblicarsi". In questa mutevolezza, quindi, ognuno ci mette del suo, chi scrive, chi riscrive, chi legge, chi interpreta. Insisto sul concetto di mutevolezza perche' la poesia non e' ambigua e nemmeno, in fin dei conti, enigmatica, quando riesce a trovare un canale di comunicazione aperto con chi legge o ascolta, cioe' quando diventa "usabile". Perche' sostanzialmente la poesia e' un linguaggio precipuo, polisemico, densamente connotativo. O forse perche' piu' che mutevole essa e', come direbbe Heisenberg, indeterminata, forse l'oggetto artistico che piu' risente della contaminazione dell'osservatore, del fruitore comunque definito, che la cambia nel momento stesso in cui la accosta. In questo senso sono d'accordo con chi parla della poesia come "esperienza" da vivere, da accogliere, anche quando la si debba affrontare con il cipiglio del critico.
Martedì, 14 novembre 2006
Eccolo che riappare. Proprio quando pensavi di essere riuscito a liberarti di lui, di quella sensazione che hai ogni volta che scrivi un verso e ti ritrovi a pensare a qualcosa che forse ha gia' scritto lui; proprio quando i suoi libri, le belle edizioni dello Specchio, cominciavano a ingiallire dignitosamente sui tuoi scaffali, e la storia editoriale si era fermata, anno piu' anno meno, diciamo al 1984, anno dei suoi monumentali "Meridiani"; e proprio quando gli strati geologici della produzione poetica del Novecento lo avevano incastonato in una sua classicita' da guardare con minor affanno. Sto parlando di Montale e del suo ultimo libro postumo, "La casa di Olgiate", che come un revenant spunta dalle ombre degli archivi. E riecco, insieme al ripetersi del suo ultimo versificare, anche un pizzico del suo stile inconfondibile, che ha pesato come un macigno su tutti quelli che hanno tentato di fare poesia dopo di lui. Incidentalmente, questo fantasma e' la dimostrazione di quello che andavo dicendo nel mio post sulle varianti e sui manoscritti, anche qui stilati su quaderni che continuano a parlarci nel tempo come messaggi in bottiglia.
Continua a leggere "La casa di Olgiate"
Giovedì, 9 novembre 2006
Devo fare ammenda con Salvatore per le poche righe che gli ho dedicato nel suo precedente post (v. qui). Tuttavia quelle righe, sostanzialmente confermabili, possono essere il nucleo di un discorso in qualche modo piu' ampio. La prima cosa che salta agli occhi in questi testi e' il tentativo di trasferire l'io lirico su una seconda persona che dovrebbe avere una funzione spersonalizzante o almeno segnare quella distanza dalla materia poetica che permette al poeta di dominarla non solo nella tecnica ma anche nella sublimazione delle emozioni. E' questo stratagemma che permette ad esempio di "sentire anche il tuo di nome / una voce che chiamava / i mormorii dei tuoi cari / morti chiamati a giudizio". Da notare incidentalmente qui l'enjambement tra "cari" e "morti" che sintomaticamente ritarda il confronto con l'elemento drammatico. Oppure di confrontarsi con meno sensi di colpa con un Dio indifferente o addirittura discriminatorio, che si allontana con una piccola schiera di eletti a cui il poeta sembra non appartenere. Potremmo dire che il tu ha una funzione protettiva, specie quando rimanda a problematiche piu' universali e "filosofiche", mentre l'io riporta a una visione piu' privata, intima, quotidiana e in un certo senso "d'occasione". L'altro versante poetico infatti e' un io difettivo, di rimessa, impegnato in un confronto col mondo incerto e inquietante (l'odore dell'edera, la luce incerta) o con gli altri, spesso, altri che non conosciamo, ma con i quali il rapporto appare problematico o quasi interrotto ("questo io non posso dirtelo / tanto e' grande lo stacco / che ci divide ormai / e questa distanza del clima", - bella chiusa), ma con cui talvolta si puo' condividere "il piacere di un viaggio / insieme e il gustarne il succo", viaggio qui forse metaforico. Sintomaticamente, nella sezione Para bellum, non poteva mancare il passaggio ad una persona plurale, collettiva, necessaria a sostenere un ben piu' concreto dolore del mondo, quando Salvatore si ritrova a descrivere la morte quotidiana, quella vera, quella di cui noi occidentali siamo spettatori e complici ("siamo noi che pian piano / gettiamo terra e riempiamo buche / su questi corpi inermi") e insieme incapaci di risarcire ("Ma come possiamo noi / consolare tutti questi morti?"). Di fronte a questo tipo di ispirazione, dolorosa ma felice, Salvatore reagisce al meglio, con compattezza stilistica, con la concentrazione poetica di un unico lungo verso, lungo come un grido, appena ritmato da poche spezzature. Forse l'inizio perfino di un poemetto intensamente civile.
Continua a leggere "Salvatore Ciro Della Capa 2"
Martedì, 7 novembre 2006
Solitamente non lo faccio, ma poiche' si inserisce nel discorso avviato con il post precedente, trascrivo qui quanto Matteo Fantuzzi ha pubblicato domenica scorsa sul suo blog Universo Poesia (v. link a lato), nonche' il mio commento
Blog di poesia: e' tempo del de profundis ?
Cercare di capire su un blog che parla di poesia se i blog di parlano di poesia hanno oggi piena necessita' di essere rivisti e forse addirittura lasciati al loro destino non e' una cosa che mi frulla nel cervello solo da oggi, per chi ha avuto modo di ascoltare la serata di Macerata quest'estate gia' diversi mesi fa si era tutti di quell'avviso. Rispetto ai giorni della nascita di quest'esperienza oggi diversi mezzi si sono potenziati: penso a youtube, penso alle linee telefoniche ad alta velocita', ma penso anche al satellite, al digitale e alle web radio. Oggi le possibilita' si sono allargate ed e' anche giusto che chi sta lavorando sulla diffusione della poesia anche attraverso mezzi non esclusivamente cartacei si ponga a ragionare in tal senso. Ognuno di noi ha una visione, un pensiero e anche delle capacita': allora prendiamoci un attimo di pausa per una riflessione molto semplice: il blog sta andando verso il suo naturale termine, parliamone: proposte ?
Caro Matteo, mi rivolgo direttamente a te. Hai fatto bene a sollevare il problema, ma la questione non e' se il blog e' uno strumento buono o da buttare, ma che cosa ci si fa con un blog. Certo. te ne puoi servire per mettere in rete la tua roba (io cerco di farlo il meno possibile), per suscitare un dibattito come fai tu, per organizzare una tendenza. Puoi aggregarlo, e qui bisogna vedere chi decide che cosa aggregare e con quali criteri. Puoi farne una comunita' (ma la democrazia c'entra poco). Puoi usarlo in maniera solipsistica, come ti pare. In ogni caso ti ritrovi, se hai un minimo di pubblico, con una specie di malattia endemica riscontrabile anche in questo post, ovvero quella che ho chiamato altrove "la deriva dei commenti", una forma acuta di narcisismo che consiste nel parlarsi addosso, autocitarsi, scambiarsi convenevoli, parlare dell'ultima vendemmia, insomma tutto tranne che affrontare con un minimo di serieta' l'argomento o peggio ancora (una vera mancanza di rispetto) l'autore presentato o invitato. Effetto collaterale della malattia e' quello di partire dal particolare (magari il testo) per arrivare all'universale o addirittura al metafisico, cosa quasi inevitabile perche' piu' comoda. Puo' darsi che sia giusto ma non so se tutto questo serve alla poesia. Questo e' uno dei problemi dei blog, che di per se' e' solo uno strumento, e neanche dei peggiori o piu' obsoleti, e come tale non puo' essere gettato via come uno scalpello arrugginito solo perche' la statua e' venuta male. E torniamo a quella che credo sia una delle cause del male di questa deriva: salvo rare eccezioni i blog non sono un terreno in cui si esercita la critica, sia essa quella spontanea di un lettore o quella piu' attrezzata. Si badi bene che io parlo di una critica vera, onesta, senza inciuci, quella che in un post sul mio blog ho definito "politicamente scorretta / poeticamente corretta", cioe' una critica disposta a farsi confutare. Se cosi' fosse la ricaduta non potrebbe essere che positiva, in termini di cultura poetica, di definizione degli ambiti, di selezione delle qualita'. Da questo punto di vista i blog, collettivi o meno. potrebbero essere un formidabile strumento. Ma le rare volte che uno prova a postare un commento appena appena articolato criticamente rischia di fare la parte del palloso, e torniamo da capo. Che un post abbia 150 commenti serve a niente se condensandoli ottieni un residuo utile risibile. Salvo le eccezioni che sappiamo, pochi hanno voglia o ritengono di avere i mezzi di impegnarsi a fare un discorso che tenti di andare oltre a un semplice "bravo, bella poesia". Capisci bene che anche un lavoro di mappatura, nel senso che dice Sinicco, potrebbe avere una diversa rilevanza. Quindi non si tratta di cantare un de profundis al blog, ma semmai di trovare altri mezzi per allargare la platea certo, ma anche e sopratutto per farne un mezzo culturalmente piu' sostanzioso, anche per mezzo, forse, di quella comunita' di intenti di cui abbiamo parlato altre volte. Se poi alcuni, per loro convinzione, per polemica o per dispetto al mondo, vogliono chiudere i loro blog, possono sempre farlo. Cordiali saluti G.Cerrai
Mercoledì, 1 novembre 2006
La lettura su La poesia e lo spirito di un commento di Massimo Sannelli (v. qui) a poesie di ******, peraltro lì non pubblicate, mi offre lo spunto per una breve riflessione su un argomento già altrove da me affrontato (v. qui e, sotto altri aspetti, qui), quello del lavoro poetico e dell’utilizzo del bagaglio culturale, e su un altro che prima o poi andrà affrontato seriamente, ovvero quello della critica come esercizio del politicamente scorretto, del poeticamente corretto o di entrambi. Bisogna premettere che il pezzo di Sannelli è per molti versi esemplare, soprattutto perché pone in maniera lieve, quasi senza darlo a vedere, alcune questioni di grande importanza, e lo fa ponendosi innanzitutto come lettore di poesia. Che si parli per l’occasione di un autore o di un altro è, in un certo senso, ininfluente. Sta di fatto che Sannelli dice certe cose di un autore, e quindi implicitamente di tutti gli autori. La prima importante questione qui è: che cosa disturba quando leggendo incontriamo una poesia (?) esplicitamente dichiarativa, “che si apre troppo”, “che sembra bastare a sé stessa, e sembra funzionare meno”? Insomma, quando leggiamo qualcosa che, seppure a nostro modesto avviso, non possiamo considerare poesia?
Continua a leggere "PS & PC"
|