Devo ricredermi, almeno in parte, rispetto a quanto avevo scritto nel primo post di Marina Pizzi. Avevo parlato di chiusura, di compattezza, di estrema densità. Mi sembrava che ci fosse una lacerazione tra bisogno di espressione e timidezza o gelosia forse un po’ criptica nel farsi capire, anche se è vero che questo a volte appartiene alla natura stessa della poesia, in particolare quella di Marina. Avevo anche riconosciuto in verità che la complessità stilistica e semantica era in sé una rappresentazione della drammaticità del reale. Non so cosa, ma qualcosa deve essere successo, qualcosa è cambiato. Almeno, questa è l’impressione leggendo “La giostra della lingua il suolo d’algebra”, qui pubblicato in un estratto dal n. 71 al 93, secondo un sistema di numerazione a cui Marina è affezionata e che avevo, credo erroneamente, interpretato come un segnale di work in progress. O forse, più semplicemente, è cambiato il mio approccio nei confronti di questi versi, che mi sembra di vedere ora con occhio anche più affettuoso. Anche qui rimane evidente il tentativo di destrutturare e ricomporre in continuazione la realtà, attraverso un anarchismo linguistico che però riesce a creare dal magma forti pennellate, anche qui il non detto svolge una funzione rilevante, anche qui l’invenzione linguistica, il lessico a volte raro, l’accostamento audace. Tuttavia si ha come un’impressione di timida apertura, o un ricollocarsi in un solco ancora fortemente icastico ma di più confidente leggibilità del disagio, della realtà che addirittura si storicizza (79). Versi molto belli come “Ne morirò con il tragitto in gola: / chiamami nei nomi delle preghiere / nel flusso delle stoppie / le quadrerie dei cimiteri / nel peristilio di un bacio di sguincio.(..) (86) non dismettono la loro potenza di scavo e di scarto linguistico/semantico, ma non abdicano anzi mi sembra riacquistino una trasparenza comunicativa, che è una mano tesa nei confronti del lettore, come se Marina dicesse: “Io sento, io sono, capiscimi”.
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