Lunedì, 27 febbraio 2006
Marina Pizzi è nata a Roma, dove vive, il 5 maggio 1955. Ha pubblicato i libri di poesia: Il giornale dell'esule (Crocetti 1986); Gli angioli patrioti (ivi 1988); Acquerugiole (ivi 1990);Darsene il respiro (Fondazione Corrente 1993); La devozione di stare (Anterem 1994); Le arsure (LietoColle 2004). Raccolte inedite in carta, complete ed incomplete, rintracciabili sul Web: La passione della fine; Intimità delle lontananze; Dissesti per il tramonto; Una camera di conforto; Sconforti di consorte; Brindisi e cipressi: Sorprese del pane nero; L’acciuga della sera i fuochi della tara; Il poemetto L'alba del penitenziario. Il penitenziario dell'alba; le plaquette L'impresario reo (Tam Tam 1985) e Un cartone per la notte (edizione fuori commercio a cura di Fabrizio Mugnaini, 1998); Le giostre del delta (foglio fuori commercio a cura di Elio Grasso nella collezione “Sagittario” 2004). Suoi versi sono presenti in riviste, antologie e in alcuni siti web di poesia e letteratura. Ha vinto due premi di poesia. Si sono interessati al suo lavoro, tra gli altri, Pier Vincenzo Mengaldo, Luca Canali, Giuliano Gramigna. Nel 2004 e nel 2005 la rivista di poesia on line “Vico Acitillo 124 – Poetry Wave” l’ha nominata poeta dell’anno. Marina Pizzi fa parte del comitato di redazione della rivista "Poesia".
I testi qui presenti (dal n. 69 all’83) sono la continuazione inedita della estesa raccolta in progress “L’acciuga della sera i fuochi della tara” reperibile qui: http://www.erodiade.splinder.com/post/7156378#more-7156378
01/07/09 - A distanza di tempo, visto che Marina Pizzi è uno degli autori più presenti su questo blog, trascrivo in prima pagina il commento che avevo associato a questo post successivamente alla sua pubblicazione:
La poesia di Marina Pizzi costringe ad un’arte ormai in disuso, quella della rilettura, poiché la prima cosa da fare è non cedere alla tentazione di restituire una serie di sensazioni di tipo impressionistico, di fronte alla densità dei versi qui pubblicati, che ti travolge. C’è da dire che se c’è un’arte che per sua natura deve essere non solo letta ma anche e soprattutto riletta (e poi detta, recitata, cantata e magari urlata al vento, da soli o in compagnia), quell’arte è la poesia. Ma tutto questo necessita di penetrare nella materia di cui è fatto il testo che stiamo leggendo, nella densità di cui stavamo parlando, che, va detto, somiglia molto a quella che si crea nei buchi neri dello spazio, dove la gravitazione è così forte che neanche la luce riesce a sfuggire. Perché? Ad esempio quella di Marina è una poesia senza armamentari classici del poetare, senza metafore o con metafore irriconoscibili, dove la lingua è così serrata da apparire totalmente nuova, senza i legami grammaticali che permettono quei “vuoti” semantici che danno respiro al verso. Intendiamoci, qui si parla della metafora classica, quella aristotelica, in cui, “quando si confronta A con B, B è tanto diverso da A da sorprenderci...e nello stesso tempo B è comune, familiare almeno quanto A” (J.F.Nims). E’ ovvio che “mandorle nere del fiume cocente” è una metafora, cos’altro potrebbe essere dato che si parla di poesia la cui essenza stessa è il traslato. Ma qui non c’è niente da confrontare perché le cose si sustanziano di ben altre qualità alla sensibilità del poeta, sono letteralmente qualcos’altro. Non ci sono enjambements, spesso il verso è compiuto in sé, e in sé limita e chiude, nella sua cadenza serrata, il suo significato definitivo. Tutto questo (e altro) determina infine una sensazione di estrema compattezza materica e forse anche una prevaricazione nei confronti del lettore, a cui il poeta non lascia spazi di manovra (o di interpretazione, in senso attoriale del termine). E’ come uno spartito drasticamente impuntato, dove persino le pause, se esistono, non sono lasciate all’arbitrio di una scansione diversamente ritmata. Difficile sottrarsi all’impressione che Marina Pizzi tenti, con grande padronanza di mezzi, un vero disfacimento del corpo verbale per ricompattarsi (non solo la poesia, ma anche se stessa) in qualcosa di completamente diverso, che non è una diversa realtà, ma la realtà disvelata, in tutta la sua drammaticità. Da un altro punto di vista una autentica contemplazione della morte, una specie di cornicione (questo sì metaforico), su cui scrittore e lettore sono seduti perigliosamente insieme. E tuttavia la realtà rimane qualcosa di ineffabile, come il nome di Dio…non ci resta che leggere una vera poesia da meditare.
Mercoledì, 22 febbraio 2006
In questi giorni ricorre il decennale della morte di Amelia Rosselli e molti hanno pensato di celebrare l'evento, in molti modi diversi. Della Rosselli si è detto molto, a cominciare dalla sua poesia sospesa in un terreno di confine, in una continua osmosi tra due lingue e, forse, due identità. Di difficile collocazione, tanto che è stata inserita con qualche disagio nella antologia "Poeti italiani del Novecento" di P.V.Mengaldo, che, quando uscì, intendeva essere esaustiva del panorama poetico italiano giunto alla fine degli anni Settanta. In maniera un pò ellittica (in questo blog non potrebbe forse essere altrimenti) colgo qui due piccioni, riproponendo un testo di una poetessa che amo nella traduzione di un'altra poetessa ugualmente amata, che ci ha messo del suo. Entrambe sublimi, entrambe travolte dall'impossibilità di trovare infine una catarsi poetica alla tragedia dell'esistere...
MORNING SONG di Sylvia Plath
Love set you going like a fat gold watch.
The midwife slapped your footsoles, and your bald cry
took its place among the elements.
Our voices echo, magnifying your arrival. New statue.
In a drafty museum, your nakedness
shadows our safety. We stand round blankly as walls.
I'm no more your mother
than the cloud that distills a mirror to reflect its own slow
effacement at the wind's hand.
All night your moth-breath
flickers among the flat pink roses. I wake to listen:
a far sea moves in my ear.
One cry, and I stumble from bed, cow-heavy and floral
in my Victorian nightgown.
Your mouth opens clean as a cat's. The window square
whitens and swallows its dull stars. And now you try
your handful of notes;
the clear vowels rise like balloons.
CANTO DEL MATTINO
Come un grasso orologio d'oro l'amore ti mise in moto.
La levatrice schiaffeggiò le piante dei tuoi piedi, e il tuo grido pelato
prese il posto tra gli elementi.
Le nostre voci echeggiano, magnificando il tuo arrivo. Nuova statua.
In un museo percorso da correnti d'aria, la tua nudità
adombra la nostra sicurezza. Ti attorniamo vacui come mura.
Non sono più madre tua io
della nuvola che distilla uno specchio per riflettervi la sua propria lenta
cancellatura per mano del vento.
Tutta la notte il tuo fiato-di-falena
ondeggia tra le rosee lisce rose. Veglio per ascoltare:
un mare lontano muove nel mio orecchio.
Uno strillo, e dal letto incespico, pesante come una vacca e floreale
nella mia vestaglia vittoriana.
La tua bocca s'apre nitida come quella d'un gatto. Il riquadro della finestra
s'imbianca e ringoia le sue tetre stelle. E ora tu provi
un tuo trillo di note;
le chiare vocali sorgono come palloni d'aria.
Martedì, 14 febbraio 2006
BNL, BPI, Unipol, intercettazioni, furbetti del quartierino, crack e dimissioni: in questo tempo di turbolenze finanziarie (come se le altre non bastassero), mi sembrano quanto mai appropriate le parole di un poeta della finezza del compianto Giovanni Raboni, che vorrei qui riproporre almeno come segno di ammirazione per la sua enorme capacità di osservare il mondo e gli uomini. Risalgono addirittura al 1961, anno in cui Raboni pubblicò ventinovenne la raccolta “Il catalogo è questo” e già allora evidentemente c’era qualche motivo di critica, per quanto poetica e ironica. Le cose non sono cambiate e, scusate il bisticcio, mi sembra in peggio. Incidentalmente, ho ritrovato questo testo, poi ripubblicato anche altrove, in uno dei miei vecchi libri, lo storico e ormai introvabile “Manuale di poesia sperimentale” di Guido Guglielmi e Elio Pagliarani, edito da Mondadori nel lontano 1966. Il libro, che raccoglieva un considerevole drappello di autori, molti dei quali del Gruppo 63, era centrato sulla funzione poetica della lingua ed era diviso in due sezioni, la funzione dell’espressione e la funzione della comunicazione, a sua volta divisa in due sottosezioni, significanti e significati. Insomma un libro interessante, soprattutto se visto in una prospettiva storica che insieme lo data drammaticamente e lo redime. Non è un caso comunque che Raboni, insieme a Giudici, sia presente solo nella prima sezione, quella che comprende, secondo i curatori, “quei poeti i quali lavorano, per così dire, su forme letterarie già costituite, sul solco di una tradizione poetica”, ma “possono rappresentare una direzione di orientamento verso i significati, perseguita all’interno di una poetica più propriamente lirica e privata..”. Ma leggiamo Raboni:
PROPRIO IL VUOTO
Per mettersi a giocare in borsa, non mi sembra
il momento buono: è già difficile
di solito, con tante voci sbagliate, con gli agenti
che comprano sempre al massimo e vendono al minimo
(dicono) della giornata... ma adesso
che soffiano vaghi scandali sul foro
e inchieste abortiscono e c’è ogni volta qualcuno
che vien su pancia all’aria, come i pesci
quando si pesca con le mine,
davvero è meglio, se puoi, starne alla larga. (Ed è, riferiscono
i viaggiatori, una gabbia di matti, dove
non cadrebbe uno spillo
anche se poi, a scoppiare è proprio il vuoto.)
Venerdì, 10 febbraio 2006
bruciano, i rovi, là fuori, ammutoliti, senza che voci apparizioni segni stelle comete in cielo. Ardono, i rovi. Qualcuno ha chiamato i bimbi, è finita ha detto, non leggi né carezze. Finito il tempo di barattoli vuoti da calciare, di risa senza denti contro i muri. I rovi anneriscono il sole, la magrezza degli occhi, l’ora del fiato in gola. I vecchi a scrivere versi nella cenere, i bambini alle armi e Dio è grande. Dio non si fa trovare, quel che è detto è detto dovevamo capire...
Martedì, 7 febbraio 2006
Mi piacciono le poesie di Gianfranco, e questo è il primo fatto e forse il più importante poiché non sono un critico militante, come ho avuto modo di dire altrove, ma (forse un po’ snobisticamente) solo uno che legge e scrive. E’ anche un fatto, poi, che sotto questa superficie estetica ci siano motivi di apprezzamento per me validi. Comincerei col dire della forza narrativa che emerge da “Album italiano” che mi ha portato a scegliere di pubblicarne un’intera sezione, “Venezia in tre atti”, in cui questa forza emerge con particolare compattezza, ma che vale per l’intero libro, che ci riporta anche ad un altro tempo, quando il treno aveva più alone mitico, avventura, viaggio, anzi felicità o bisogno del viaggio. Questo attraversamento d’Italia, in cui i luoghi appunto narrativamente si riconoscono e ti ritrovi in una terra a te familiare, è un viaggio anche interiore perché Fabbri non è estraneo alla scena e questo attraversamento lo riguarda personalmente, un viaggio a tappe che si può e si deve poeticamente raccontare. Da qui il linguaggio, “qualcosa di affine al discorsivo”, come Gianfranco sembra affermare programmaticamente (o forse modestamente) all’inizio del libro, che ruotando spesso intorno a un “tu” che sancisce il poeta come personaggio (fattore spesso presente nella poesia moderna) addensa l’espressione poetica in versi limpidi, immediati, icastici, che raccontano forse “personaggi casuali” , “situazioni minime” (Fantuzzi), ma che non sono minimalisti proprio perché l’io (o il tu) poetico, presente ma discreto, è lì a garantire la verità del “viaggio” e del vissuto, la pietas con cui guarda al mondo e agli uomini. Versi che sono a volte trattenuti e concisi, al limite dell’haiku (“Al Tombolo l’alba sorprende / un merci andare verso Pisa.//Tanto sa l’esistenza del suo giorno”), a volte spinti da una felicità che poi esplode in un endecasillabo della migliore tradizione (“Poi dirsi: / quanto è buono il caffè / in un bar di stazione, / mentre fuori convulsa è la tempesta”), il che vuol dire peraltro che Fabbri è assolutamente consapevole dei suoi strumenti. Che altro dire in questa breve nota? Che a proposito di questo libro si è ricordato Penna (Benini Sforza nell’introduzione) e questo è giusto, ma a me è venuto in mente anche il Giudici di “La stazione di Pisa” e non solo per affinità “ferroviaria” (“Stazione di Pisa, il buio brivido / che all’alba ti destava era il segnale / convulso del diretto. / I frenatori, / con gli occhi chiari madidi di nebbia, / accorrevano neri tra i binari: / rispondevano al grido del fuochista.”). Segno questo di una elaborazione critica non solo degli strumenti, come si diceva, ma anche delle ascendenze. Si è parlato anche di fotografia al riguardo delle poesie di Gianfranco. Anche qui più che di fotografia, in questa poesia che io percepisco come dinamica, parlerei di cinema, il movimento, la luce, certi paesaggi che sfilano fuori del finestrino e dentro di noi, con occhi diversi a seconda se ami, soffri, attraversi l’Italia per piacere o per trovare altrove il tuo destino.
Gianfranco Fabbri è nato a Siena e vive da molti anni a Forlì. Ha esordito in poesia nel 1978 con la raccolta Di tutto un niente (Forum). Ha pubblicato cinque raccolte di versi (fra le quali "I ragazzi del Settanta", Campanotto, 1989 - "Davanzale di travertino", Campanotto, 1993 - "Album italiano", Campanotto, 2002, da cui proviene la sezione qui presente) e un breve romanzo, "Jennifer", presso Fernandel di Ravenna, 1995. Esplica il suo amore per la poesia, tra le altre cose, anche attraverso il suo blog “La costruzione del verso” (v. link qui a fianco)
Venerdì, 3 febbraio 2006
Siamo a Febbraio, e allora ecco un'altra poesia di Jane Kenyon (v. anche il post precedente). Una breve lirica, forse non di alto valore poetico, ma che rende abbastanza l'atmosfera e le tematiche tipiche della poesia di Kenyon antecedente il periodo segnato dalla malattia. Purtroppo la traduzione perde un pò la musicalità del verso e il gioco delle allitterazioni e delle assonanze.
Febbraio: Ricordando i fiori
Ora il vento tormenta il campo,
ripiegando la bianca superficie
su sè stessa, ancora e ancora su sè stessa,
come un animale che si lecca una ferita.
Nient'altro che bianco - l'aria, la luce;
solo un bruno baccello d'asclepiade
fluttuante nel rigagnolo, piccolo
scuro battello nella corrente immensa.
Un'unica verde cosa germogliante
mi conforterebbe...
Allora pensa all'alta speronella
che ondeggia, o all'ape quando giunge
alla lingua del giglio porporino.
February: Thinking of Flowers
Now wind torments the field,
turning the white surface back
on itself, back and back on itself,
like an animal licking a wound.
Nothing but white--the air, the light;
only one brown milkweed pod
bobbing in the gully, smallest
brown boat on the immense tide.
A single green sprouting thing
would restore me. . . .
Then think of the tall delphinium,
swaying, or the bee when it comes
to the tongue of the burgundy lily.
Jane Kenyon
Copyright © 1986 by the Estate of Jane Kenyon. Reprinted from The Boat of Quiet Hours by Jane Kenyon, published by Graywolf Press. Used with the permission of Graywolf Press, Saint Paul, Minnesota. All rights reserved.
Trad. G.Cerrai - 2006
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