Ricevo dall'amico Davide Nota (e pubblico volentieri) un suo scritto relativo alla questione delle cosidette "linee regionali" della poesia italiana, nella fattispecie quella marchigiana, di cui Davide nega, mi sembra argomentatamente, l'esistenza. Come ho avuto modo di dire privatamente all'autore, credo però (e spero) che il discorso possa essere una base di partenza per una discussione non limitata al solo ambito locale (e geografico), ma allargata anche ad una sovraterritorialità stilistica e tematica.Per chi interessasse, dico che il post a cui Davide fa riferimento nel suo articolo è reperibile, con i relativi commenti, qui: http://golfedombre.blogspot.com/2007/04/la-linea-del-sillaro.html
Non esiste nessuna linea marchigiana (regioni, dialetto e post-dialetto)
[di Davide Nota]
Prendo la parola a seguito di una discussione svoltasi nel blog “Blanc de ta nuque” in occasione della presentazione dell’antologia “La linea del Sillaro” (Campanotto, 2006) a cura di Matteo Fantuzzi. Discutendo con lo stesso Fantuzzi della possibilità di delineare o meno nuove linee regionali Stefano Guglielmin fa riferimento ad una “linea marchigiana” rilevata dall’e-antologia “Scorie contemporanee” (La Gru, 2007). Nella più completa stima ed amicizia nei confronti del poeta e dello studioso Stefano Guglielmin mi permetto di dissentire da questa interpretazione.
Innanzitutto: le Marche non sono mai esistite come identità regionale. Storicamente terra di confine fra due regni, è l’unica regione italiana ad aver mantenuto sino ad oggi il nominativo plurale. Nell’immaginario culturale del nostro paese, da cui non è affatto immune il mondo delle lettere, luogo comune vuole le Marche coincidere con la Marca di Macerata. Questo forse anche in virtù del fatto che, storicamente, la zona centro-meridionale del territorio marchigiano, da Macerata fino al fiume Aso, è l’unica ad essere stata linguisticamente omogenea. A livello culturale, e più squisitamente letterario, sarà invece l’icona Giacomo Leopardi a confermare questa riduzione: “I canti” e Macerata sono “le Marche”.
Prima considerazione: le Marche sono state in realtà quattro regioni culturalmente e linguisticamente distanti: la Marca settentrionale (Pesaro) appartenente ai gruppi linguistici dell’Emilia, la Marca di Ancona vicina ai gruppi umbri, la Marca maceratese e infine la Marca del Sud (Ascoli Piceno) appartenente ai gruppi dialettali meridionali (per approfondimenti: Flavio Parrino, “Il dialetto”).
Seconda considerazione: se è vero che la lingua è il sangue del discorso letterario, Giacomo Leopardi non risente della minima influenza territoriale. Il dialetto maceratese, nel passaggio dal classico al volgare, evita l’eliminazione delle vocali atone finali in contrasto con le evoluzioni dialettali dell’Italia settentrionale (si mantiene ILLU; l’articolo LU e non IL), la parola si armonizza al suo interno con vari smussamenti consonantici (da ND a NN; da MP a MB; da NK a NG). Una lingua dunque assolutamente “morbida”, che nulla ha a che vedere con la petrosità cristallina di Leopardi. Se il poeta di Recanati canta dunque “il” e “nel” territorio, lo fa da straniero: della storia, della geografia, della lingua.
Terza considerazione: dalla generazione dei nati negli anni ’40 e ’50 le regioni, che esistevano solo in virtù di un’appartenenza linguistica, non esistono più se non come retaggio o rimpianto tramandato. Oggi per la nuova generazione poetica italiana il dialetto può avere solo due funzioni: una funzione ermetico-elitaria (il lucano di Domenico Brancale) e una funzione polemico-politica (il friulano di Flavio Santi). L’unico “dialetto popolare” utilizzabile senza un fine concettuale, e dunque liricamente, è un gerghetto “nazionale” di derivazione televisiva: linguaggio mass-mediale sporcato dalle scorie del dialetto, slang che potremmo definire “post-dialettale”.
Torniamo alle Marche, che se non sono esistite come regione linguistica neppure ai tempi delle identità dialettiali a maggior ragione oggi s’offrono come puro non-luogo (unica identità di muti pastori). Basti analizzare un qualunque breve elenco di poeti marchigiani dai venti ai quarant’anni, come ad esempio questo: Enrico Piergallini, Daniele De Angelis, Massimo Gezzi, Filippo Davoli, Luigi Socci, Stefano Sanchini, Loris Ferri, Franca Mancinelli, Emiliano Michelini; per non parlare dei quasi adottati Andrea Ponso e Danni Antonello. Nessuna identità comune, poche vicinanze e tutte di carattere extra-geografico (si potrebbero rintracciare in qualunque altro poeta lucano o piemontese). Unici inserti di derivazione dialettale in De Angelis, sia per le possibilità che offre l’ascolano, tra musicalità partenopea e durezza etrusca, sia per una personale poetica particolarmente attenta al mondo della terza età e al suo linguaggio.
Prima conclusione: la definizione “linea marchigiana” è un paradosso storico e solo come tale può e deve essere utilizzato.
Seconda conclusione: le linee, cioè le tendenze in atto, sono definitivamente extra-geografiche e trasversali. L’antologia “Scorie contemporanee”, a cura di Gianluca Pulsoni, presenta tra le tante del presente una “direzione” che ho spesso definito “impura” in quanto caratterizzata a livello linguistico da un innesto di gergo post-dialettale, o più semplicemente di parlato, e di lingua letteraria scritta; a livello stilistico da un intreccio di poesia tradizionale e rotture prosastiche (prosa come “epifania del reale”); a livello tematico da una rinnovata esigenza espressiva come principio assoluto dello stile.
Terza conclusione: la “linea impura”, venuta fuori dall’e-antologia “Scorie contemporanee”, non ha un territorio se non forse il “territorio parallelo” delle periferie occidentali. Oggi si può parlare dunque di “territori paralleli” ma non più di regioni.
Quarta conclusione: con l’abbandono delle identità regionali anche la pluralità delle Marche (legata come si è visto all’identità delle “altre” regioni) si è persa. Permangono certamente aree di dominio culturale ed editoriale, i cosiddetti gruppetti e le loro clientele, ma si tratta chiaramente di un retaggio destinato a scomparire nel giro di una generazione. L’esperienza de “La Gru” ha dimostrato come un lavoro redazionale nelle Marche possa oggi infrangere il dogma del confine provinciale e avere doppia sede: una nel confine meridionale (Ascoli Piceno), l’altra nel confine settentrionale (Pesaro e Urbino). Sarebbe stato impensabile fino a qualche decennio fa: si pensi solo a Lengua, Residenza, Verso, Marka, Pelagos, Nostro lunedì… tante riviste quante provincie. Miracoli del post-moderno…