Sul progetto di Fine attività
Cinque movimenti del corpo fa parte di un progetto dal titolo provvisorio Fine attività, composto solo in parte e in parte ricomposto e decomposto. Dovrebbe essere, se mai vedrà la fine, imperniato sulla fine della civiltà occidentale e sulla rovinosa deriva del pianeta. È un progetto post-ambizioso – non mi appartiene più alcun tipo di ambizione e di speranza, né umana né poetica – in cui dovrebbero trovar spazio gli ultimi palpiti del sentire, della compassione, del pianto per ciò che inevitabilmente deve perire in un’apocalisse che non salva nessuno, in una morte improvvisa di ogni riferimento positivo (le ultime convulsioni di senso sono riservate all’amore privato, deprivato però d’ogni collocazione sociale, sterilizzato dunque in un rapporto autodifensivo e costruito su impalcature da ragnatela, da cui la stabilità), di ogni possibilità divina, di ogni possibile fuga.
Il lavoro im/poetico dovrebbe comporsi di una decina di sezioni: Lavori in corso (sulla preparazione della fine), Viaggi imperfetti (sulla chiusura delle vie di fuga), Miscele (sulla combinazione degli elementi umani), Cinque movimenti del corpo (corpi in moto, immoti), Preparazione del fuoco (allestimento del falò della civiltà), La fuga di Dio (la scomparsa del sacro dall’idea umana), Amori senili (ultimi palpiti “umani”), Affari finali (business sulla fine), Do you remember Rembrandt? (ricordi e nostalgie nell’approssimarsi della fine), Fine attività (la fine del tutto).
Di queste sezioni sono state composte solo Cinque movimenti del corpo e Fine attività. Il resto? Forse non vedrà mai la luce, forse resterà nella mia mente allo stato progettuale.
Enrico Cerquiglini
CINQUE MOVIMENTI DEL CORPO
di Enrico Cerquiglini
Non era un bel camminare col coprifuoco
Nella città appesa tra montagne e condor.
Per ogni passo udito obliterava il cardias
un quotidiano ticket, un viatico per l’oltre;
le ombre deformate dai fari delle camionette,
dal ronzìo militare, disegnavano giganti ubriachi
pronti a svellere case, alberi e lampioni.
Camminare in fretta, senza perdere
le tracce del sangue, distinguendole al buio dal piscio dei cani,
dai gocciolamenti dei camion, dai liquami del mercato,
apriva interrogativi, slarghi, non seguiti ammonimenti.
E se quel sentiero di sangue, dopo la svolta a destra,
finisce in un cumulo di cartone marcio
da dove spunta una mano che hai stretto forte
con la passione e l’inferno di cui sei capace,
capisci quanto dolore può contenere un cranio,
solo usato per l’ordinaria amministrazione.
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Lait è il suo nome – nome d’auspicio, di Francia
in tetrapak -; nera la sua pelle coperta da disegni
di refoli tra la sabbia; francese è la sua lingua,
francese d’Afrique, francese da non-francese,
francese arrotondato, inghiottito da miniere,
risputato da parti sanguinosi, da feti misti a sabbia;
misurati i suoi gesti, modesti e antichi,
moderni nel disegnare orizzonti che dal ventre svariano
oltre la Senna, oltre il Rodano, fino a perdersi,
a sfociare in mediterranee allusioni: gesti di femmina
che ha scelto di non scegliere, di generare senza parto,
di nutrirsi senza cibo, di alzare la voce nel silenzio;
rocce i suoi seni, dune pietrificate che respirano
col vento, diffondendo intorno muschio e terra umida
in segni inequivocabili di tregue armate, di rancori
rappresi, di onnivore mani avvezze a ghermire, a lacerare.
Lait non canta, non sorride, non vende il corpo!
Ha un cuore tagliato in due da un machete
e ricucito in fretta con liane e quando pulsa – due o tre
volte al giorno – si spinge fino in gola, le fa versare
sangue dalla fronte, dalle unghie, dal ventre,
ma sa che è il prezzo da pagare al sogno di vendetta.
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Ho conosciuto persone capaci di mangiarti la mente
succhiandotela dal naso, di strapparti il cuore
nel sonno senza svegliarti, di evirarti col sorriso
più dolce del mondo. Ho conosciuto persone che in nome
dell’amore e della pace hanno lastricato terre di crani,
riempito mille ventri di odio, allevato col sangue
cani, bambini, piantagioni, dittature e democrazie.
Ho conosciuto persone senza certezze – dolci nella loro debolezza –
che abbagliate dal Vero han cominciato a scarnificare corpi
e coscienze, con la forza della Giustizia. Ho conosciuto
persone incapaci di umanità – sorrisi per tutti,
pacche sulle spalle, solidarietà con tutti, battuta pronta –
pronti a diventare carnefici degli avi, della prole
per della luce apparsa tra sassi. Ho conosciuto persone buone,
armate di bontà, pronte alla commozione, alla pietas,
alle più umane delle emozioni, capaci di annichilirti,
di toglierti ogni anelito di vita. Ho conosciuto persone
in grado di spegnere il firmamento, di estinguere l’homo sapiens sapiens
con un semplice sguardo e, sorridendo, sembrano preparare
ciglia e sopracciglia per l’ultima, definitiva, collisione.
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Raccolgo ai piedi di alberi immensi – millenari castagni –
ricci e terriccio per farne fuoco e nutrire postriboli di gerani.
Uso tutta la pazienza dei miei avi, gesti abituati al lavoro
diuturno, senza accelerazioni o elargizioni teatrali. Se alzo
la testa è per vedere da quale parte si metta la pioggia, da dove
spiri il vento, da dove un ruggito metallico avanzi inclemente.
Ho sulle spalle il peso di un mondo scomparso – e lì c’è una chiesa,
segnata dall’ultimo sisma e da scritte di vernice nera:
scritte d’amore, quindi di odio assoluto per tutto, che non riguardano
sentimenti ma urgenze da basso ventre, meccaniche distruttive
e raggelanti disegni di famiglie, di normale morte seriale.
Vedo, nelle mani nere di terra, ciò che saremo, che già siamo
e questo mi lega alle radici insinuate tra pietre come vermi eterni,
come aratri di un mondo ch’è sotto la superficie, mondo di voci
che precedono mille secoli di silenzio, mille eternità d’un buco nero
che riconcentra e rimpasta materia da riproiettare in forme di vita
altrove, in laceranti percorsi di esseri moventi, stridenti, ripensanti.
L’umido odore della terra passa la tela dei calzoni con fredda carezza,
quasi cuna consolatoria d’un bimbo morto nel sonno, un fiore di grazia
senza valore, fatto di petali gelatinosi e mutante colore ad ogni sguardo:
ora bianco, ora alba, ora meriggio, ora sole rosso, ora notte, ora nebbia…
Ha un padrone questa terra e non sa che esiste, un padrone assassino
dei miei padri, assassino del sangue che ha segnato i confini: ora è padrone
dal sangue marcio: profuma di muschio secco e agita le mani furiose
contro le ombre dei miei avi, minacciando una seconda morte, una damnatio
memoriae tra letame vaccino e carcasse gonfie di peste suina.
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Trasformata la vita in area attrezzata, tutto sembra ordinatamente
disposto: nascita indolore; crescita tra coltrici e moine affettuose,
scuola per disimparare ad essere per acquisire elementi di disaffezione
e disprezzo del già stato, nonché apprendere primi rudimenti di ipocrisia,
di opportunistiche propensioni al vampirismo; università per raggiungere
vertici di cinismo, arroganza e presunzione condite da pillole divinanti
perfezionanti carcasse precarie; lavori intellettuali senza forza d’intelletto,
stipendio precario, pensione al minimo, bara con telefono satellitare.
Parallelamente: sogni di spiagge lontane (Maldive sotto casa) lobi e lombi
da palpare, assaporando essenze commerciali, deodoranti al cocco danese,
sapori di creme antirughe all’albicocca, silicone rivestito di pelle, cosce
rimodellate da alghe e bisturi, magari imperlate da sadomaso cilici
in gaudenti espiazioni, tra fellatio in radica di noce, amplessi circoscritti
da andirivieni di carri armati e aviazione in copertura, mefitiche attrazioni
tra gasolio, bulloni e tori da monta. Poi, testa a posto, moralismo e zio prete,
un pargolo o due da espellere al mondo onde garantirsi una vita oltre la morte
continuando nomi, perpetrando cognomi, vezzeggiativi e suppellettili.
Tutto un sogno che rende superfluo il vivere, tutto un balletto di passi noti
su note bisunte e addolcenti per amarognoli disamoretti, per cazzetti
in sciopero erettile o stremati da un onanismo di carta traslucida
moltiplicando cause ed effetti, ricorrendo al dio del coito per garantirsi
riflessioni all’altezza del compito, col ghigno beffardo di chi sa di sapere
ogni piega dei calzoni, ogni misura del seno, ogni perlatura dentale,
ogni ancheggiamento senza studi matti e disperatissimi, ma con l’esercizio
continuo d’un membro che ha anima e corpo e vive di vita propria.
E tu, vecchio imberbe fanciullo, cresciuto tra Dante e Baudelaire, nutrito
di merda in scatola e salmone fumè, tu mi parli di speranza? Tu che
hai figli appesi alle mammelle della mucca di metallo che piscia e beve petrolio?